Alcuni presupposti teorici
Description
La grammatica Nel suono il senso nasce dal tentativo di declinare in ambito scolastico la teoria linguistica del professor Eddo Rigotti[1]. Per conoscere la sua concezione di lingua, testo e comunicazione si consiglia il volume La comunicazione verbale[2], alla cui lettura si invitano i docenti intesi ad approfondire il percorso di riflessione sulla lingua qui proposto.
Sono qui riportati e brevemente commentati (nei box -> Dalla teoria alla didattica) alcuni paragrafi relativi a concetti basilari tratti da questo e altri testi autorevoli. Non tutte le note relative a tali brani sono state riportate, poiché si sono privilegiate quelle che ritenute di maggior importanza per approfondire l’argomento centrale del paragrafo.
1. Comunicazione e Senso
Lo scambio comunicativo
(Tratto da E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, pp. 1 ss.)
T’è vorsü la bicicleta, mo pedala
T’è vorüü la bicicleta, adess pedala!
Un primo accostamento al concetto
Per accostarci al concetto di comunicazione può essere utile partire dall’etimologia, cioè dalla storia della parola. Il termine comunicazione viene dal latino communicatio che è il nome deverbale del verbo communico. Questo contiene il formativo cum (“con”, “assieme a”) e la radice di munus, che in latino presenta una notevole polisemia. I suoi significati fondamentali sono peraltro due: “dono” e “compito” (incarico). Questa radice si ritrova in municipium, matrimonium, patrimonium… con il valore generico di “qualcosa che spetta — che tocca a” e compare in molte parole che l’italiano e altre lingue moderne mutuano dal latino come remunerativo, munizione, munire, immune, munifico[3].
Sorge immediata una domanda: quale nesso esiste tra i significati fondamentali della parola latina munus (1) “dono”, “bene” e (2) “compito”? In altre parole, questi due valori sono del tutto indipendenti l’uno dall’altro oppure possiamo ravvisare fra loro una connessione?
Questa seconda ipotesi è decisamente più convincente. Cominciamo col fare, in effetti, un’osservazione: un oggetto prezioso richiede cure[4]. Per esempio, Davide compie 18 anni e suo padre gli regala una moto, addirittura una Harley. Questo “bene” impone però al proprietario nuovi obblighi: la cura dei documenti, l’assicurazione, il casco, il parcheggio, la manutenzione… Gli esempi possibili sono assai numerosi: richiedono cura — diversa in ciascuno dei casi, ma pur sempre cura — un gatto, un libro, una cravatta ecc. Nella nostra cultura alcuni regali richiedono addirittura una cura specifica: è uso aprire subito una scatola di cioccolatini e offrirne al donatore; i fiori vanno messi subito nell’acqua; bisogna leggere i biglietti prima di aprire i pacchetti… e così via.
A ben vedere, lo stesso vale per gli “oggetti” della comunicazione, cioè per quelli che chiamiamo messaggi o testi: il bene che passa da una mano all’altra in un atto comunicativo è il senso di quanto viene detto, che comporta in qualche misura un cambiamento del destinatario, esattamente come Davide, divenuto proprietario della Harley, “non è più lo stesso”. Il bene crea implicazioni, obblighi, responsabilità. Responsabilità è una parola che ha la stessa radice di risposta: la responsabilità è il comportamento normale di chi riceve un bene; la risposta è il comportamento normale di colui al quale viene rivolta una domanda: si crea uno scambio. Ma gli atti linguistici non sollecitano solamente “risposte” da parte del destinatario, impegnano anche a comportamenti di natura diversa e quindi creano altre responsabilità.
Vediamo alcuni esempi. Luigi confida a Stefano un segreto (si è innamorato di Laura): questo tipo di comunicazione richiede discrezione da parte di Stefano rispetto all’informazione che ha ricevuto; al contrario, quando la segreteria dell’università riceve l’orario dei corsi da parte di un professore, questa comunicazione implica l’obbligo di trasmettere l’informazione agli studenti interessati: non è un segreto da mantenere! Oppure, Chiara comunica all’amico Andrea una sua preoccupazione: crea in lui il “dovere” di partecipazione implicato dalla loro amicizia; Martina ingiuria Pietro: la comunicazione avvenuta crea un obbligo di riparazione; Francesca chiede alla commessa di una boutique un golf azzurro: questa ha il “dovere” di mostrarle i capi disponibili…
Un altro elemento da tenere presente: in molte lingue — a partire dal latino — un unico aggettivo significa “benvoluto” (clear) e “costoso” (expensive); pensiamo appunto al latino carus, ma anche all’italiano e allo spagnolo caro e al francese cher, al tedesco teuer al russo dorogoj[5]; è un’indicazione precisa: qualsiasi bene è tale nel senso che ha un valore e nel senso che interessa, sta a cuore, i due significati si implicano vicendevolmente.
Il verbo latino communico significava mettere in comune un bene di qualsiasi genere, una casa, una risorsa, ma anche una proposta, un sentimento, un pensiero, un segreto ecc.
Anche il significato fondamentale[6] di “comunicare” in italiano e in molte lingue moderne è quello di “mettere a disposizione di un altro”, “mettere a parte di…”, “far partecipare un altro di un bene che ho” e questo come momento di uno scambio (cfr. tedesco mit-teilen , russo so-obščenie). Con una specificazione: quanto viene scambiato nella comunicazione non può essere un bene materiale, si deve trattare di segni. Non, tuttavia, segni qualsiasi (uno dice “Pietro” e l’altro risponde “gatto”), ma segni che producono un senso.
Ritroviamo un’antica immagine della comunicazione intesa come “scambio di beni e di segni insieme” nella figura mitologica del dio Mercurio, che è veloce messaggero degli dei (ha addirittura le ali ai piedi, la tecnologia delle comunicazioni di un tempo)[7], è dio dell’interpretazione dei messaggi, ma anche protettore del commercio (Mercurius, merx, commercium, mercatus ecc.). Mercurio (per i greci Hermés) aiuta a interpretare lo scambio tra parole e pensieri che si attua nella comunicazione: è insomma anche il dio dell’ermeneutica[8].
Uno scambio di segni che produce senso
(Tratto da E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, op. cit., pp. 26 ss.)
La parola senso ha una grande polisemia (cioè ha molte accezioni diverse, diversi significati). In italiano la usiamo per dire direzione quando diciamo che una strada è percorribile “a senso unico”, ma, se diciamo che una persona “ha buon senso”, intendiamo dire che questa persona sa valutare le circostanze in modo ragionevole. Se invece parlo dei “cinque sensi” intendo gli organi di percezione… Consideriamo infine l’espressione “non ha senso”, che rappresenta un’accezione molto interessante[9]. È degno di nota che nel linguaggio comune l’espressione è usata tendenzialmente solo in negativo. Se uno mi dice:
Mio figlio non guida: è sposato
Io penso che scherzi, a meno che non sia folle, perché quello che dice non ha senso. Ci sono anche comportamenti non sensati; se uno va al bar e chiede: “Mi può fare un caffè?”, e il barista risponde: “Sì” e se ne va, il suo comportamento non ha senso. E se il direttore del manicomio, come vuole una nota barzelletta, appende sulla porta del suo ufficio un cartello con la scritta Si prega di bussare e un paziene, tutte le volte che passa di lì bussa … il suo comportamento è in sensato. E ancora, a un livello diverso, non avrebbe senso aprire una ditta di freezer al Polo Nord… Questi sono tutti esempi di insensatezza.
Pensiamo in effetti che ci sia un collegamento tra il senso e la ragionevolezza: una fatto “ha senso” quando ha un rapporto (che, come vedremo, è possibile specificare descrivendolo in modo esplicito) con la ragione.
[…]
Per capire meglio che cos’è il senso è utile infine mettere a fuoco la distinzione tra due concetti che, pur essendo apparentemente simili, si rivelano diversi: si tratta di notizia e informazione.
Se esco dall’università e uno sconosciuto mi si avvicina e mi dice con tono di confidenza: “Mio cugino è farmacista”, questa comunicazione mi dà un’informazione, che però non ha senso perché a me non interessa. Questo significa che un’informazione, per poter essere considerata una notizia, deve essere pertinente per il destinatario, cioè deve, in qualche misura, riguardarlo. Riesco a comunicare davvero quando il destinatario si rende conto del fatto che quello che gli sto dicendo ha senso per lui. Potemmo dire, scherzando un po’, che noi dobbiamo lavorare sull’informazione in termini di marketing, per riuscire a “vendere” l’informazione come notizia per qualcuno. Ma bisogna comunque che l’informazione risulti infine oggettivamente interessante per il destinatario.
Il comunicatore in effetti seleziona e comunica solo alcune delle informazioni che costituiscono il suo “data-base del mondo”: quelle che ritiene pertinenti per il suo destinatario.
Il senso come cambiamento
(Tratto da E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, op. cit., pp. 57 ss.)
In effetti parlare è un modo di agire. A colte l’azione di parlare (ordinare un macchiato caldo, ad esempio) è subordinata a un’azione non comunicativa (bere il caffè) e pertanto il suo senso si coglie in rapporto alla totalità dell’azione al cui svolgimento si ordina, In altri casi l’azione è in sé comunicativa, in quanto contenuta e realizzata nel parlare stesso, come ad esempio quando promettiamo, spieghiamo, interroghiamo… In ogni caso […] il senso di un’azione coincide con il suo fine. Questo emerge quando si cerca di comprendere che cosa sia il non-senso nell’azione comunicativa: come negli altri tipi di azione, il non-senso coincide con l’inadeguatezza rispetto allo scopo, o addirittura con l’assenza di scopo.
Il senso delle azioni comunicative è pertanto la comunicazione stessa, intesa come “scambio di beni” che modifica la soggettività del destinatario e, insieme, quella del parlante. Ne possiamo concludere che il fine della comunicazione è il cambiamento[10].
Quanto più il cambiamento operato nei soggetti è profondo, stabile e radicale, tanto più “senso” attribuiamo all’atto comunicativo che l’ha prodotto. Non si può certo sostenere che la comunicazione modifichi sempre radicalmente i soggetti coinvolti, a volte essa influenza il loro atteggiamento solo momentaneamente e in superficie. È l’atteggiamento di fondo[11] del destinatario e del parlante ciò che deve cambiare in una comunicazione perché si possa dire che questa ha un senso rilevante, come ad esempio in una testimonianza in tribunale, la cui importanza coincide con la sua decisività per le sorti dell’imputato davanti al giudice sia con la responsabilità (magari addirittura il rischio…) che il testimone si assume. Conseguentemente valutiamo i testi in rapporto alla sensatezza profonda, cioè alla loro capacità di modificare stabilmente le soggettività implicate,
Dalla teoria alla didattica
La concezione della comunicazione come scambio di senso finalizzato al cambiamento degli interlocutori (habit change) è, nella panoramica delle teorie semiotiche che informano la prassi didattica, senza ombra di dubbio la più originale – cioè nuova e vera – e densa di implicazioni didattiche. Se non avesse come fine l’incremento dell’essere del destinatario – nonché del mittente -, l’atto comunicativo non risulterebbe altro che una trasmissione di informazioni senza gerarchia, le une equipollenti alle altre, in ultima analisi insignificanti. Tale visione della comunicazione è riscontrabile in molti aspetti anche della vita scolastica: si pensi ai manuali, nei quali le nozioni sono poste le une accanto alle altre senza che sia dichiarato esplicitamente il criterio di esposizione; alle antologie che raccolgono testi di ogni specie e genere, raggruppati per lo più in nome di alcuni aspetti formali che le accomunano, senza alcun riguardo per il senso che essi trasmettono, per l’autore concreto che li ha prodotti, per il destinatario concreto che li leggerà; alle esercitazioni di scrittura che vengono proposte agli studenti, sovente finalizzate ad affinare le tecniche piuttosto che ad attestare la loro reale esperienza… Insomma, nella scuola odierna pare essere venuto meno l’hic et nunc, l’evento, l’accadimento, l’essere presente e reale della persona che conosce, legge, scrive, impara a favore dell’enciclopedismo e della formalizzazione, deresponsabilizzanti sia per il docente che per il discente.
Un possibile riscatto da tale situazione consiste nel reintrodurre nella didattica la categoria dell’interesse, dell’essere dentro alle questioni con tutte le proprie domande, le proprie aspettative, la propria esperienza, la propria storia. Per quanto concerne la testualità tale aspetto implica una intensa riflessione da parte del docente: quali testi propongo? perché proprio quelli? e a che punto del percorso formativo degli studenti? e ancora: di che cosa li invito a parlare attraverso la scrittura e l’oralità? sono davvero indifferenti gli argomenti proposti rispetto alle forme di discorso che con la mia didattica intendo insegnare? Altrettanta responsabilità sarà richiesta allo studente, il quale dovrà essere guidato a cercare innanzitutto il senso di quanto legge e scrive (“Bada al senso, che il suono sa badare a sé stesso” recita L. Carrol in Alice nel paese delle meraviglie). Per esempio chiedendosi: ma cosa è cambiato di me grazie a questa lettura? qual è il passaggio più significativo per tale cambiamento? E ancora: cosa voglio veramente comunicare attraverso il testo che sto per scrivere? cosa ho di originale, cioè mio, da me esperito, da dire a tal proposito?
2. Sintagmi e sintassi
I nessi sintattici: dipendenze e costituenti
(Tratto da E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, pp. 260 ss.)
Il sintagma è una parola o un insieme di parole che svolgono una e una sola funzione sintattica. Fondamentalmente consideriamo:
- il sintagma nominale (SN) è costruito attorno a un nome, che ne costituisce il nucleo, con le sue eventuali espansioni, ad esempio questo gatto, un lavoro intelligente. Il SN può assumere entro l’enunciato funzioni diverse a seconda delle relazioni che intrattiene con altri costituenti: soggetto (un bambino corre), oggetto (vedo un bambino), complemento (passeggiava con un bambino), predicato nominale (Luigi è un bambino), apposizione (Luigi, un bambino furbetto, non si lasciava sorprendere).
- Il costituente formato dal verbo e dal determinante che ad esso eventualmente si associa si chiama sintagma verbale (SV). Il suo nucleo è il verbo. Per esempio
(Maria) mangia una grossa fetta di torta alle mele
O
(Luigi) è davvero simpatico,
- il sintagma preposizionale (SPrep) è formato da un SN retto da una preposizione, come sul tavolo o nell’armadio. Il SPrep può essere incluso nel SV in quanto completa sintatticamente il verbo di cui è un determinante – (Luigi) litiga con Maria – , oppure può costituire un sintagma a parte, che aggiunge informazioni alla struttura sintattica del verbo, già compiuta: (Luigi litiga con Maria) per l’auto[12],
- Il sintagma predicativo (SP) mette a fuoco una particolare dimensione, si riferisce cioè al sintagma che ha per nucleo il verbo, nelle sue relazioni sia con i sintagmi che fungono da argomento del predicato semantico del verbo stesso sia con i sintagmi che rappresentano altrettanti predicati semantici di cui il verbo stesso è argomento. In questa prospettiva l’enunciato Luigi litiga con Maria per l’auto risulta formata dal SN Luigi e dal SP litiga con Maria per l’auto. Possiamo immaginare un altro esempio:
Stefano corre nel parco,
Dove la preposizione in può indicare un terzo argomento del predicato “correre”, qui inteso come predicato che indica il movimento rapido di un soggetto da un luogo a un altro luogo[13]: Stefano sente un grido e corre nel parco a vedere cosa succede. Alternativamente in può segnalare un predicato di ragno superiore che indica il luogo in cui si svolge il correre di Stefano. Qui la semantica del predicato è diversa: correre è monoargomentale e significa una certa attività di movimento rapido di un soggetto (la preposizione in diventa allora semanticamente piena): Alla domenica Silvia si allena e Stefano corre nel parco. Si noti che nelle forme composte del verbo l’omonimia si scioglie perché si usa un ausiliare diverso: Stefano è corso nel parco nel primo caso; nel secondo Stefano ha corso nel parco.
SN soggetto e SV costituiscono l’articolazione fondamentale per l’organizzazione sintattica del testo, lo snodo vitale senza il quale non potremmo nemmeno pensare un messaggio […].
Il SV indica la presenza di una frase, cioè di una struttura sintattica dominata da un verbo. In effetti, il verbo è, di regola, vertice sintattico dell’enunciato ed è sempre il vertice sintattico della frase. L’eunciato è compiuto morfo-sintatticamente: questo “compimento” avviene con la saturazione delle valenze morfosintattiche, intese come “bisogno che la la forma di parola ha di integrarsi con altre forme di parola” secondo i procedimenti previsti dalle lingue storicho-naturali. Nella frase il vertice sintattico è sempre un verbo, ma la frase può avere delle valenze insature che devono essere saturate da altri verbi. Ad esempio in … che Andrea partisse la frase non è sintatticamente autonoma, deve essere completata (Credevo che Andrea partisse) per formare un eneunciato.
La nozione di costituente
I sintagmi sono costituenti, cioè “gruppi” di una o più parole che svolgono determinate funzioni sintattiche unitarie dentro l’enunciato. Come delimitare i costituenti? L’operazione è tradizionalmente chiamata parsing[14]). Si procede, di solito, per sostituzioni, che lasciano inalterata la struttura sintattica dell’enunciato pur modificandolo dal punto di vista semantico. In effetti questo livello dell’analisi porta alla luce il significato sintattico, cioè quel livello del significato che è propriamente affidato alla sintassi. Per evidenziare tale livello — meno intuitivo forse di altri livelli dell’organizzazione linguistica — è necessario prescindere dagli altri livelli. Si applicano all’enunciato con questo scopo due tipi di test: la sostituzione e la permutazione. Vediamo dapprima la sostituzione con un esempio.
- Il nuovo professore legge un lungo saggio in biblioteca
2. Luigi legge un lungo saggio in biblioteca
3. Il nuovo professore legge Dante in biblioteca
4. Il nuovo professore legge al bar
5. Luigi legge
6. Litigi mangia al bar
SN e SPrep possono essere sostituiti anche da pronomi: i pronomi utilizzati per sostituire i costituenti sono detti “pro-forme”. Non è possibile operare altri tipi di sostituzione, ad esempio sostituire il gruppo di parole breve saggio in con una pro-forma. In 5, il SP legge sostituisce il SP legge un lungo saggio in biblioteca. Questo indica la presenza di un costituente (SP) che può essere realizzato da entrambe le strutture.
Il secondo test è la permutazione: i costituenti si caratterizzano per la possibilità di mutare di posizione senza cambiare il proprio significato sintattico — cioè le proprie relazioni — nell’enunciato:
- Il nuovo professore legge un breve saggio in biblioteca
2. In biblioteca il nuovo professore legge un breve saggio
3. Il nuovo professore legge in biblioteca un breve saggio
4. Il nuovo professore in biblioteca legge un breve saggio
Sostituzioni e permutazioni mettono in luce che gli enunciati constano di componenti sintattici, o sintagmi, ciascuno dei quali svolge una funzione particolare: e possiamo così rappresentare la struttura sintattica fondamentale di un enunciato come segue:
E -> SN + SP
L’enunciato è fatto, fondamentalmente, dell’unione di un SN con un verbo. Questaarticolazione corrisponde in modo preferenziale a quella di predicato e argomento e il suo valore preferenziale è quella di azione+agente (Luigi corre).
I costituenti emergono nella linearità dell’enunciato, manifestandone l’organizzazione gerarchica cioè le relazioni di dipendenza. La nozione stessa di “vertice sintattico” suggerisce di guardare all’enunciato come a una gerarchia di relazioni in cui ciascun costituente assume senso sintattico in rapporto alla totalità cui si lega, cioè in rapporto alla posizione che occupa, sia nella rete di dipendenze che sta “dietro” il testo, sia rispetto agli elementi con i quali è direttamente legato.
I gruppi di parole dette sintagmi
(Tratto da A. Ferrari, L. Zampese, Dalla frase al testo. Una grammatica per l’italiano, Zanichelli, Bologna 2000, pp. 78 ss.)
Una frase è costituita da una sequenza di parole caratterizzate da una determinata forma. Le parole che costituiscono le frasi si riuniscono in gruppi. Per constatarlo, consideriamo le due frasi seguenti:
[Bubi] si è perso.[il gatto siamese dei nostri vicini] si è perso.
Esse si riferiscono entrambe allo stesso animale: nel primo caso, esso è nominato con una sola parola, Bubi; nel secondo caso, esso è nominato da un insieme di parole: il gatto siamese dei nostri vicini. Questo gruppo di parole ha dunque la stessa funzione svolta dalla singola parola Bubi nella prima frase.
Soffermiamoci ancora sulla frase seguente:
Ho visto una ragazza col binocolo.
Questa frase può avere due significati linguistici diversi: nel suo primo significato, essa indica che il locutore ha visto una ragazza servendosi del binocolo; nel suo secondo significato essa indica che il locutore ha visto una ragazza che aveva in mano (o al collo, ecc.) un binocolo. Ora, questi due diversi significati discendono da due raggruppamenti diversi delle parole. L’espressione col binocolo nel primo caso non forma un gruppo di parole unitario con una ragazza, mentre nel secondo caso sì:
Ho visto una ragazza [col binocolo].
Ho visto [una ragazza col binocolo].
Ai gruppi di parole in cui si articola la frase diamo il nome di sintagmi.
La quantità di parole che può essere racchiusa in un sintagma è variabile: si può andare da un numero particolarmente elevato di parole:
[Il gatto siamese di color cioccolato dei nostri vicini così simpatici] si è persofino ad una sola parola:
[Bubi] si è perso.
[Lui] ce l’ha fatta.
Ci sono addirittura casi in cui il contenuto linguistico del sintagma è sottinteso, come nella frase seguente:
Ce l‘ha fatta.
Qui infatti, il soggetto è sottinteso: a seconda dei casi, potrà trattarsi di lui, Michela, il mio caro amico, la moglie del mio più caro amico, ecc.
Alcune proprietà dei sintagmi
I gruppi di parole che formano un sintagma hanno un insieme di proprietà che discende dal fatto che formano un’unità sintattica.
- Il sintagma può essere globalmente spostato all’interno della frase. Consideriamo l’esempio seguente:
[Durante l’estate] Michela rimane a Vicenza.
Il sintagma durante l’estate può essere spostato alla fine della frase, o tra Michela e rimane a Vicenza:
Michela rimane a Vicenza [durante l’estate].
Michela [durante l’estate] rimane a Vicenza.
La parola durante, che da sola non forma un sintagma, non può essere spostata:
*L’estate Michela rimane a Vicenza [durante].
La parola Michela, che invece forma da sola un sintagma, può essere spostata:
Durante l’estate rimane a Vicenza [Michela] (e non Federico).
- Il sintagma non può essere spezzato da altro materiale linguistico proveniente dalla frase. Per esempio, non possiamo spezzare durante l’estate introducendo Michela tra durante e l’estate, vale a dire tra parole che formano un sintagma:
*[Durante Michela l’estate] rimane a Vicenza.
Osserviamo. In alcuni casi, all’interno di un sintagma si può introdurre un’espressione parentetica, ma ciò non è significativo perché le espressioni parentetiche hanno sempre una grande libertà di inserzione:
[Durante, credo, l’estate] Michela rimane a Vicenza.
- Spesso, un sintagma può essere sostituito da una pro-forma, vale a dire da un pronome o da un’espressione con significato molto generale. Per esempio, nella nostra frase il gruppo di parole a Vicenza, che forma un sintagma, può essere sostituito da ci:
Michela [ci] rimane durante l’estate;
nella frase seguente:
Ho incontrato [una ragazza molto simpatica]
il sintagma una ragazza molto simpatica può essere sostituito dal pronome la:
[L]’ho incontrata.
- Un sintagma può essere enunciato da solo in situazioni comunicative del tutto normali, come mostra lo scambio seguente:
A: Quand’è che Michela rimane a Vicenza?
B: [Durante l’estate].
Per enunciare da sola una parte di un sintagma, ci vogliono situazioni comunicative molto particolari:
A: Non ho capito. Michela rimane a Vicenza durante cosa?
B: L’estate.
La struttura della frase è lineare e gerarchica
I sintagmi che formano la frase sono organizzati in modo lineare, possiamo dire cioè che un particolare sintagma precede o segue un altro sintagma; ad esempio in:
[Durante la conferenza] > [Michela] > [è stata brillante],
il sintagma Michela segue il sintagma durante la conferenza e precede il sintagma è stata brillante.
Oltre a possedere un’organizzazione lineare, i sintagmi di una frase possiedono un’organizzazione gerarchica: all’interno di una frase possiamo cioè incontrare sintagmi che sono racchiusi in sintagmi di livello superiore. Pensiamo alla frase seguente:
L’anno scorso il marito di Michela ha scritto un libro per le scuole elementari.
Nella frase vi è un sintagma che si riferisce a colui che ha compiuto l’azione di scrivere il libro: il marito di Michela; ora, questo sintagma contiene al suo interno un altro sintagma di livello inferiore, vale a dire di Michela:
[Il marito [di Michela]].
Osserviamo. La struttura gerarchica è importante anche per verificare le proprietà che abbiamo attribuito ai sintagmi: ad esempio, per ciò che riguarda le possibilità di spostamento all’interno della frase di un sintagma, è evidente che i sintagmi di livello inferiore non avranno libertà di movimento e che tale proprietà andrà sempre riferita al sintagma considerato nella sua dimensione complessiva.
L’organizzazione gerarchica della frase apparirà in modo chiaro nel punto seguente (2.3), quando ci occuperemo della funzione sintattica dei sintagmi. Per ora, limitiamoci ad osservare che il concetto di gerarchia è un concetto importante per potere analizzare la struttura sintattica della frase.Esso ci permette per esempio di spiegare come mai la frase di cui abbiamo già parlato:
Ho visto una ragazza con il binocolo
possa avere due significati linguistici diversi. Nel caso in cui sia la ragazza ad avere il binocolo, il sintagma con il binocolo è incluso nel sintagma di livello superiore la ragazza con il binocolo:
Ho visto [una ragazza [con il binocolo]];
ciò non succede invece quando il binocolo è lo strumento utilizzato dal locutore per osservare la ragazza:
Ho visto [una ragazza] [con il binocolo].
Se ci limitassimo a considerare la frase come organizzata linearmente, non potremmo spiegare qual è il fondamento sintattico delle due diverse interpretazioni della nostra frase: in entrambi i casi, dal punto di vista lineare il sintagma con il binocolo occupa sempre l’ultima posizione della frase.
Vi sono diversi tipi di sintagmi
I sintagmi sono classificati in funzione del tipo di parola che funge da elemento centrale.
Più precisamente, riconosciamo il sintagma nominale, il sintagma aggettivale, il sintagma avverbiale, il sintagma preposizionale e il sintagma verbale.
Le parole che fungono da elemento centrale del sintagma sono le sole a dover apparire obbligatoriamente all’interno di un sintagma. Per esempio, la frase seguente:
Michela dorme
è costituita da un sintagma nominale che contiene il solo nome Michela, e da un sintagma verbale costituito dal solo verbo dorme. Vi è un’unica eccezione a questa generalizzazione: il caso in cui il soggetto è sottinteso.
Il sintagma nominale ha come elemento centrale il nome o il pronome; i sintagmi delimitati dalle parentesi nella frase seguente sono entrambi sintagmi nominali:
[Lei] si è mangiata [una torta intera].
Il sintagma aggettivale ha come elemento centrale l’aggettivo; l’esempio seguente contiene un sintagma aggettivale:
In questo periodo, Michela è [molto contenta];
in quest’altro esempio, il sintagma aggettivale fa parte di un sintagma nominale di livello più elevato:
Alla festa inviterei volentieri [questa ragazza [molto simpatica]],
Il sintagma avverbiale ha come elemento centrale l’avverbio; ne troviamo uno in entrambi gli esempi seguenti:
Michela parla [velocemente][Molto probabilmente], ha fatto finta di niente;
anche il sintagma avverbiale può essere incluso in un sintagma di livello superiore; un esempio in cui ciò si vede chiaramente è il seguente, in cui il sintagma avverbiale molto è racchiuso nel sintagma aggettivale molto simpatica, il quale a sua volta è incluso nel sintagma nominale una ragazza molto simpatica:
Ho conosciuto [una ragazza [[molto] simpatica]].
Il sintagma preposizionale inizia con una preposizione; il gruppo di parole individuato nell’esempio seguente è un sintagma preposizionale:
Questa sera, cenerò [con Michela];
come tutti i sintagmi, esso può essere incluso in un sintagma più ampio; pensiamo al gruppo di parole già visto:
[Una ragazza [con il binocolo]];
si tratta di un sintagma nominale che contiene al suo interno un sintagma preposizionale.
Il sintagma verbale possiede come elemento centrale il verbo; nell’esempio seguente esso è costituito dalla forma verbale è partita:
Michela [è partita].
Si tratta del gruppo di parole più complesso della frase. Consideriamo l’esempio seguente:
Michela [dimentica sempre il borsellino].
in questo caso, il sintagma verbale contiene il verbo, che è il suo elemento centrale, un sintagma avverbiale (sempre) e un sintagma nominale (il borsellino). Consideriamo ancora l’esempio seguente:
Michela [ha dimenticato il borsellino], probabilmente.
In questo secondo caso, il sintagma verbale è costituito dalla forma verbale ha dimenticato e il sintagma nominale il borsellino, ma non dal sintagma avverbiale probabilmente.
La ragione per la quale il sintagma avverbiale fa parte del sintagma verbale nel primo esempio ma non nel secondo risulterà evidente quando nel prossimo punto ci occuperemo della funzione sintattica dei sintagmi, ma già da adesso si può intuirne la ragione ripensando alle distinzioni tra avverbi interni ed avverbi esterni al sintagma verbale, affrontata nel punto dedicato all’avverbio. […]
Dalla teoria alla didattica
In entrambi i brani riportati a proposito della struttura sintagmatica della frase emerge l’importanza di due fattori: i costituenti e le dipendenze, la linearità e la gerarchia. Fattori distinguibili nella didattica, ma operanti entrambi nella testualità.
Nella grammatica Nel suono il senso si è voluto proporre un percorso che mettesse in luce ora l’uno ora l’altro di tali fattori, per guidare gli studenti alla comprensione della sintassi.
Occorre però una precisione: gli autori hanno scelto di considerare l’unità minima della sintassi il sintagma semplice, non complesso.
Ad esempio, nella frase:
Il gatto insegue il topo
Si considerano costituenti
[SN il gatto] [SV insegue] [SN il topo]
e non [SN il gatto] [SV insegue il topo] .
La ragione di tale scelta è meramente didattica, giacché si è rilevato importante nella fase di formazione della competenza linguistica degli studenti della scuola media, rendere loro il più evidente possibile la presenza di sintagmi minimi, e la loro funzione in rapporto gli uni agli altri nella strutturazione della frase.
Si è deciso inoltre di considerare solo tre tipi di sintagmi: sintagma nominale, verbale e preposizionale, sia per ragioni di sintesi (è sempre meglio nella pratica didattica suggerire pochi elementi cui ricondurre la complessità), sia perché è più convincente la definizione di aggettivo e avverbio come modificatori di sintagmi o di loro parti che come sintagmi essi stessi. Ad esempio, per quanto riguarda l’aggettivo, emerge con più chiarezza la sua funzione attributiva e predicativa se nell’analisi lo si associa ora al nome ora al verbo. La frase
Il mio gatto è soffice.
può dunque essere così analizzata:
[SN il mio gatto] [SV è soffice]
mettendo anche graficamente in evidenza la funzione ora di attribuire una caratteristica al nome per permettere l’identificazione dell’ente denominato (mio gatto) ora di collaborare con il verbo per predicare qualcosa a proposito del nome (è soffice).
Più complessa l’analisi sintattica dell’avverbio, in quanto solo in alcuni casi modifica il verbo e dunque può essere considerato parte del sintagma verbale:
Mangio volentieri.
[SV mangio volentieri]
In altri casi può essere considerato modificatore di aggettivo o di nome all’interno di altri sintagmi:
Luca sta svolgendo un esercizio molto difficile.
[SN Luca] [SV sta svolgendo] [SN un esercizio molto difficile]
Piero si crede un super uomo.
[SN Piero] [SV crede] [SN si = sé stesso] [SN un super uomo]
Vi è poi un uso dell’avverbio che riguarda meno la sintassi e più la semantica: è il caso degli avverbi modificatori di enunciato o di aspettativa.
Non mangio.
= Non è vero che mangio
Non mangio i peperoni.
= è vero che tutto tranne i peperoni
L’avverbio non ha il potere di modificare la struttura che manifesta il rema, cioè la novitòà della frase, pur essendo posto sempre a ridosso del verbo.
Fortunatamente non mi hanno dato la multa!
= È stato un caso fortunato che non mi abbiano dato la multa.
L’avverbio fortunatamente non modifica né un nome né il verbo: esso va considerato come una frase che regge l’intero enunciato:
E ancora:
Persino Piero non è riuscito a risolvere il problema.
=Mi aspettavo che nessuno dei miei compagni riuscisse a risolvere il problema tranne Piero – che è bravissimo in matematica – , invece neanche lui è riuscito.
Persino non modifica né il nome Piero né il sintagma verbale è riuscito a risolvere, bensì va considerato in stretta relazione all’aspettativa del parlante:
Si comprenderà che operare un’analisi sintattica non avrebbe in tal caso alcuna efficacia ai fini della scoperta del rapporto struttura-senso in tale frase: occorre un’indagine logico-semantica che impone un’esplicitazione del presupposto.
3. Concordanza e reggenza
(Tratto da E. Rigotti, Lezioni di Linguistica generale, a cura di A. Rocci e C. Bignamini, Edizioni CUSL, Milano 1997, pp. 168 ss.)
Approfondiamo ora i processi di manifestazione dell’ipotassi, che essendo una struttura intermedia può ricorrere a più tipi di manifestazione, tre in particolare: la concordanza, la reggenza e la giustapposizione.
La concordanza: un nesso sintattico tra x e y si manifesta grazie alla presenza di ambedue gli elementi concatenati da un morfema analogo. Consideriamo il legame tra sostantivo e aggettivo attributivo:
alt-er Mann
vecchi-o uomo
In alter si manifestano alcuni morfemi omologhi a quelli che si manifestano in Mann: in italiano sono solo il singolare e il maschile, in tedesco è anche il nominativo e il sintagma nominale indefinito (perché se fosse definito ci sarebbe der alte Mann, questo è tipico del tedesco). Nell’aggettivo i morfemi sono estrinseci o sintattici, mentre nel sostantivo sono intrinseci o semantici. La concordanza si realizza tramite l’uso di morfemi estrinseci omologhi a quelli intrinseci presenti nell’altro elemento. Il procedimento della concordanza è presente nelle lingue flessionali.
Il nesso sintattico è manifestato invece attraverso la reggenza in
lat. sine + ablativo
ted. ohne + accusativo
La reggenza è la manifestazione della subordinazione per cui un elemento determina la presenza di un morfema sintattico nell’altro elemento. I fatti di reggenza sono numerosi: le preposizioni ad esempio operano mediante reggenza.
La giustapposizione è diffusa in molte lingue. Considero
Luigi è arrivato tardi
e vedo che questa espressione è ipotattica. Non c’è però una congiunzione coordinativa né un morfema che segnali la combinazione. La struttura sintattica la stabilisco in rapporto al senso. Qui ho un avverbio che non ha morfemi ma ha un senso pieno:
L’ arrivo di Luigi è stato tardi
Ma la difficoltà della giustapposizione è che è ambigua:
Luigi ha mangiato molto
Molto è diverso da tardi, perché determina solo il mangiare, è più particolare: i sintagmi interessati possono essere stabiliti solo a livello semantico.
Le tre modalità sono diversamente applicate a seconda delle lingue: la concordanza e la reggenza prevalgono nelle lingue flessionali, mentre la giustapposizione opera nelle lingue analitiche; tali sono, ad esempio, il cinese e l’inglese.
La giustapposizione è un legame semplicissimo: incolla due elementi tra loro, li agglutina, li mette insieme e con ciò dice che uno riguarda l’altro, uno determina l’altro. Essa però lascia molte cose in ombra. È certo che ogni nesso sintattico è anche giustappositivo, implica anche la concatenazione, l’agglutinazione: si mettono insieme i passi di un discorso per formare una frase, per formare un altro discorso.
È un procedimento molto semplice, applicato in tutte le lingue, in alcune più che in altre. Per esempio, abbiamo accennato al fatto abbastanza evidente che l’inglese è fortemente giustappositivo; anche il cinese lo è: lingue di questo tipo sono dette analitiche. Ma vediamo ora quali conseguenze particolari ne nascono, vediamo perché la giustapposizione in sé non è sufficiente, si deve appoggiare a qualcosa d’altro. Lo vedremo sia per le lingue flessionali che per quelle analitiche.
Più sopra abbiamo fatto un esempio un po’ difficile:
Luigi è arrivato tardi
Luigi ha mangiato molto
Tardi nel primo caso si riferisce al tutto, si dice tecnicamente che ha uno scope, un’attivazione totale; invece molto nel secondo enunciato ha come scope soltanto l’oggetto del mangiare. Ora faccio un esempio più evidente:
Luigi non è venuto per riposare
Non è un avverbio, una particella avversativa. Questa frase è ambigua: l’intonazione può aiutare un poco a differenziare ma non del tutto. In un senso posso voler dire che è rimasto a casa perché aveva intenzione di riposarsi; con un’altra intonazione posso voler dire che Luigi è venuto ma non ha intenzione di riposarsi. Il tutto dipende dalla diversa collocazione dello scope, dal punto di applicazione dell’attivazione. Tutti gli avverbi operano per giustapposizione; si nota però come la giustapposizione sia spesso non univoca, proprio perché non dice esattamente il punto di applicazione. Inoltre la giustapposizione non distingue neppure tra determinante e determinato.
Come ovviano le lingue a questa insufficienza, a questa non univocità della giustapposizione? In russo la frase Rebënok čitaet knigu potrebbe essere tradotta con puer legit librum; chi sa il russo, sa che questa frase consente un’infinità di ordini; l’ordine varia e variando l’ordine preciso i punti di applicazione della giustapposizione. Interviene poi l’intonazione. Questo dato è testuale: per esempio in Svetonio compare una frase che da questo punto di vista è interessante:
liberalia studia initio imperii neglexit
Io la posso leggere in diversi modi: «egli, all’inizio dell’impero, trascurò tra le altre cose gli interessi umanistici», oppure posso tradurre: «gli studi umanistici li trascurò all’inizio dell’impero», oppure «per quanto riguarda gli interessi umanistici, all’inizio dell’impero egli li trascurò». Quest’ultima interpretazione è quella corretta per il passo di Svetonio.
L’intonazione dunque aiuta la giustapposizione; ma notate che lingue come russo e latino comportano ordini dei sintagmi svariati, liberi sintatticamente.
La giustapposizione, essendo una strategia debole, si appoggia sempre sull’intonazione, come abbiamo visto per il russo e il latino, ma ci accorgiamo che in una lingua come l’inglese si poggia anche molto sull’ordine delle parole. Se c’è molta giustapposizione, l’ordine delle parole tende ad essere fisso, rendendo univoci i sintagmi, rendendo univoca la manifestazione dei sintagmi. C’è complementarità, c’è economia degli strumenti di manifestazione, c’è una interessante economia della semiosi. È una legge della vita: se uno ha un handicap recupera su altre possibilità.
Dalla teoria alla didattica
L’articolarsi delle strutture sintattiche avviene, come si è detto sopra per composizionalità, ma anche per dipendenza, attraverso due procedimenti: la paratassi (in base alla quale ciascuna delle strutture in nesso fra loro può svolgere la funzione dell’insieme, come nei SN composti: [Carlo e Luisa] guardano un film; o negli enunciati composti: Bevo la birra e mangio le patatine) e l’ipotassi, la quale si manifesta nei rapporti di concordanza, reggenza e giustapposizione.
Nel libro Nel suono il senso è dato largo spazio, oltre che allo studio dei componenti minimi della sintassi (i sintagmi) a tali fenomeni, in particolare la concordanza e la reggenza. In ombra e non citata la giustapposizione, sia per la sua scarsa incidenza nello strutturarsi della frase italiana, sia per la sua complessità, poco comprensibile a studenti ancora in formazione.
Il fenomeno della concordanza evidenzia come morfologia e sintassi siano cooperanti nello strutturarsi della frase, soprattutto se si pensa alla presenza massiccia dei morfemi estrinseci nella nostra lingua: articolo e aggettivo assumono il morfema dal nome con cui si combinano; il verbo assume il morfema della persona e del numero (talvolta anche del genere) dal sintagma nominale-soggetto; il pronome deve il suo morfema a quello dell’elemento che sostituisce.
4. Testo
La sequenza testuale
(Tratto da E. Rigotti, Lezioni di Linguistica generale, op. cit., pp. 215 ss.)In questa parte del corso prenderemo contatto con il senso testuale, cioè con le strutture logico-semantiche del testo. Introduciamo innanzitutto la nozione di sequenza. Chiamiamo sequenze le unità di cui è fatto il testo. Possiamo quindi intendere il testo come una successione di una o più sequenze.
Non si tratta però di una successione qualsiasi; il testo comporta una certa unità tra le sequenze, occorre che le sequenze accostate presentino un senso unitario.
Una successione come:
Mio figlio non guida.
È sposato.
pur essendo formata da sequenze in sé sensate, non è un testo, mentre in:
Mio figlio non guida.
Ha dieci anni
le due sequenze hanno un senso unitario, fanno testo. Perché si abbia un testo è necessario che la successione in quanto tale sia portatrice di un senso, e di un senso unitario.
È necessario distinguere tra ‘senso’ e ‘significato’. Possiamo ad esempio riscontrare in una parola come uomo, una serie di significati possibili nella lingua italiana:
essere umano
essere umano maschio
essere umano maschio adulto
Il senso testuale non coincide però con il significato, perché ci sia il senso è necessaria una presa di posizione del parlante rispetto a… Il testo è un atto che ci mette in rapporto.
Essenziale per la caratterizzazione della dimensione del senso è la categoria del cambiamento: Ch. S. Peirce, uno dei padri della scienza dei segni (l’altro è Saussure), individuava l’esito ultimo di un segno in un habit change, un cambiamento del modo d’essere. Se consideriamo che ing. habit < lat. habitus il quale è da ricollegare a se habere ad…, vediamo che si tratta del “modo d’essere in rapporto a…”. Un’espressione linguistica ha un senso se produce in chi ascolta un cambiamento del modo d’essere; un testo ha senso se mi cambia.
È stato necessario introdurre la nozione di sequenza testuale, che corrisponde all’atto comunicativo, perché vi sono testi complessi in cui il cambiamento avviene grazie a più cambiamenti successivi. Un testo può essere un’opera costituita da più atti (sequenze), rimanendo pur- tuttavia unitario, essendo cioè una sequenza esso stesso.
Bisogna distinguere le sequenze, unità del testo, dai sintagmi, che sono unità sintattiche, e perciò appartenenti al livello strumentale. Può avvenire comunque che un sintagma assurga al ruolo di sequenza, di atto comunicativo; come accade in:
Cos’è quell’edificio?
La casa di mio padre.
Tra sintagmi e sequenze vi è comunque una certa analogia, in quanto possiamo avere tanto sintagmi costituiti da sintagmi, quanto sequenze costituite da altre sequenze; e come abbiamo sintagmi minimi, così abbiamo sequenze minime.
Sequenza minima è una porzione di testo alla quale è affidato un senso compiuto, alla quale corrisponde un certo coinvolgimento esistenziale. Se consideriamo:
La casa che vedi di fronte a noi è di mio padre
possiamo vedere che la frase relativa ha una funzione denotativa (ci permette di individuare la casa), e quindi puramente strumentale, non ha a che fare direttamente con il senso, al massimo contribuisce a precisarlo. Gli elementi significativi che compaiono nel testo possono avere due funzioni: una funzione strumentale, e una funzione di senso.
Per accostarci all’analisi testuale dobbiamo acquisire una nuova sensibilità: per immaginare che una frase sia in un testo e non astrattamente nella grammatica bisogna incastonarla in situazioni di vita, immaginare per essa una collocazione esistenziale. Qui la linguistica studia come funziona, come viene usato concretamente, quello strumento che è la lingua. L’aver senso è aver rapporto; dunque gli esempi, le espressioni ben formate riportate dalle grammatiche non sono testi.
La gerarchia delle sequenze
Riprendiamo l’esempio:
Mio figlio non guida.
Ha dieci anni.
Possiamo osservare che qui la seconda sequenza rende ragione della prima. Abbiamo due mosse testuali distinte la cui unità, il cui senso complessivo, sta nel fatto che la seconda rende ragione della prima:
Mio figlio non guida
(te ne spiego la ragione.)
Ha dieci anni.
Per spiegare l’unità del testo è necessario riconoscere una sequenza non manifestata linguisticamente che sia gerarchicamente sovraordinata alle due sequenze esplicite.
Emerge qui con chiarezza la differenza che corre tra l’interpretazione di un testo e un’operazione di decodifica: la decodifica è un’operazione rapportata alla semiosi, alle conoscenze linguistiche, che attiva il rapporto semiotico; l’interpretazione è un’operazione complessa comportante la ricostruzione di segmenti che il testo non esibisce ma fa inferire, la quale attiva il rapporto comunicativo, ha come oggetto l’atto comunicativo.
La nozione di sequenza, come abbiamo detto, ha qualche analogia con quella di sintagma, in quanto sono consentite complessità diverse e si dà una gerarchia tra sequenze: la gerarchia è una dominanza, una dipendenza, come nella sintassi, di natura logico-semantica, che presuppone un legame. Che tipo di legame è presupposto in una gerarchia di natura logico-semantica?
Per decenni hanno tentato di farci credere che un testo è una giustapposizione di enunciati ed un enunciato una giustapposizione di lessemi e morfemi; la regola era la madre del senso, bastava seguire le regole e, indipendentemente da ogni realtà umana e non, si costituiva il senso attraverso una buona costruzione (secondo la regola), l’esito del casuale combinarsi di certe parole secondo determinate regole.
L’ipotesi che noi pratichiamo è che il senso nasce dal rapporto tra l’essere umano e la realtà, l’altro.
Se c’è una gerarchia, bisognerà dunque distinguere tra sequenze sovraordinate e sequenze sottordinate.
Cerchiamo di capire intuitivamente: all’inizio della terza cantica Dante racconta l’errore, poi si stacca e parla ai suoi lettori e dice loro che per proseguire ci vuole una grande mente e un grande cuore, non basta una “piccioletta barca”*. È una mossa testuale di livello diverso, che assume il resto del testo come oggetto, assume foricamente (ana- e kata-) tutta la Commedia prima e dopo: quella sequenza assume la totalità del testo, domina il testo. È una sequenza sovraordinata, una mossa testuale che si colloca al di sopra di altre mosse. E così le sequenze successive saranno sottordinate.
Allo stesso modo Manzoni parla ai suoi “venticinque lettori” e giustifica la successione di vicende contemporanee col paragone del bimbo che vuole raccogliere insieme tutti i porcellini d’India: è una mossa testuale che prende sotto di sé tutto il testo. Alcune sequenze dominano logico-semanticamente ampi segmenti di testo, impongono talvolta una rilettura dell’intero testo, ne danno la chiave di lettura.
Vi ho introdotti così ad una nozione che darà ragione della gerarchia:è la nozione di connettivo, cioè del collegamento fra le sequenze, fra quegli atti testuali successivi che costituiscono il testo. Se l’ipotesi della giustapposizione non è ragionevole, Qual è il collante che tiene unite le sequenze di un testo? Non può essere il semplice collante fonico, la giustapposizione: possiamo mettere insieme varie sequenze in sé sensate, ma che non fanno testo:
Ieri faceva freddo. Oggi tengo lezione. Mio zio era commerciante.
Mio figlio non guida. È sposato.
C’è qualcosa di più:
1- Ieri faceva freddo. Questo fatto mi ha causato un terribile raffreddore.
Il secondo enunciato riprende per anafora il primo: questo è un deittico testuale che fa della prima sequenza un costituente della seconda.
2- Ieri faceva freddo. Perciò ho buscato un terribile raffreddore.
Perciò = a causa di questo, questo ha causato; è meno evidente, ma si tratta ancora di una ripresa anaforica.
3- Ieri faceva freddo. Mi sono buscato un terribile raffreddore.
La sequenza testuale è connessa tanto quanto le precedenti, anche se dal punto di vista semiotico nulla mi manifesta il legame: la semiosi è solo un momento della testualità, la quale richiede anche strumenti di altro tipo. In tutti e tre i casi riconosciamo l’esistenza di un connettivo, non in senso semiotico-linguistico, ma connettivo logico-semantico, di funzione testuale. La modalità di manifestazione del connettivo testuale è molto varia e spazia da totalmente esplicita a totalmente implicita, con gradi intermedi.
In ogni caso il connettivo è presente; abbiamo visto come se non c’è connettivo non può nemmeno esserci testualità. Definiamo il connettivo. Il connettivo è sempre un predicato che assume tra i suoi argomenti la sequenza in oggetto e la collega ai fattori della comunicazione, che sono altrettanti argomenti del connettivo stesso. Attribuiamo a questa struttura responsabilità enormi. Il connettivo nel parlato è affidato, oltre che alle particelle discorsive, anche all’intonazione; nello scritto può essere affidato solo a particelle discorsive — (discourse particles. particules énonciatives), dal significato molto sfocato, come allora, se, quindi, insomma, ebbene e, almeno in certi usi, dunque — e, in certo modo, all’interpunzione. Per questo il vero apprendimento di una lingua seconda è l’apprendimento anche dell’intonazione e delle discourse particles. Nello scritto, poi, il connettivo può non essere manifestato da alcunché: compio allora un’operazione di veloce inferenza e lo ricostruisco. Dobbiamo pensare al connettivo come ad un predicato che connette degli argomenti. Il verbo leggere connette Luigi a un giornale sportivo perché i due argomenti sono congrui con i tratti che il predicato impone ai posti argomentali; in effetti analogamente, connette una sequenza come mio figlio non guida con ha cinque anni, la sequenza che segue spiega la sequenza che precede, in effetti è un predicato sinonimo di “spiegare”: verrà detto explicitandum il primo argomento del connettivo, ed explicitans il secondo. Ci sono parole in una lingua che esplicitano i nessi: spiegare evidenzia il nesso tra due sequenze. Osserviamo una struttura come quindi. Essa semioticamente non si presenta come un predicato che connette argomenti, ma come una sorta di monade, come un blocco senza apporti (manifestazione sfocata), eppure essa ha una natura di connettivo: quindi indica che la sequenza che precede è spiegata da quella che segue. La sequenza assume senso grazie al connettivo. Nel testo bisogna cogliere una rete logico-semantica fortissima. E per questo che in greco λóγος significa insieme il testo e la ragione. Semioticamente i connettivi non si presentano come predicati a n posti ma come monadi, non ho segnali che mi dicono cosa deve seguire o precedere; il connettivo è un blocco non analizzato, tuttavia ha la natura del predicato. Il connettivo non si limita a dire la funzione della sequenza: il posto argomentale del connettivo ha una serie di tratti che caratterizzano la sequenza: attraverso il posto argomentale il connettivo definisce la struttura della sequenza, determina le funzioni entro la sequenza. Ad esempio in:
Pietro non è un amico. Ha detto al capo che sono arrivato in ritardo
la seconda sequenza ha significato di spiegazione, ma c’è una sottile ma rilevantissima ambiguità dipendente dalla nozione di amico: l’amico è colui che afferma sempre il vero o colui che mi sta vicino nelle debolezze? Nel primo caso Pietro non è un amico perché ha detto il falso, non è vero che sono arrivato in ritardo. Nel secondo caso l’amico è chi ha un filo di connivenza, e l’accusa verte sui fatto che Pietro ha detto al capo del mio ritardo. Il connettivo è infatti in entrambi i casi, ma i due diversi valori della parola amico si ripercuotono sulla funzione logica della sequenza. Vediamo un altro esempio:
Sei un bugiardo. Hai detto alla mamma che ho rotto un bicchiere.
Sei una spia. Hai detto alla mamma che ho rotto un bicchiere.
Prima l’accusa è di menzogna, l’accento è sul rompere il bicchiere, nel secondo l’accento è sul dire alla mamma. Cambia la struttura interna delle due sequenze, e la loro funzione logica.
Il connettivo è l’aggancio del testo alla situazione reale, all’esistenza; esso media il rapporto tra la semantica, il significato veicolato semioticamente, e la vita, cioè tra il significare e l’essere.
Questo rapporto è detto comunicazione. Avviene tramite questi due momenti: nel parlato ci sono l’intonazione e le particelle discorsive, in un testo scritto, in cui segnali intonativi non sono presenti e le particelle discorsive sono decisamente meno frequenti, il connettivo spesso non è manifestato e si ricostruisce tramite segnali diversi; c’è dunque differenza tra decodifica e interpretazione, cioè tra “Was der Text bedeutet und was der Text meint”.
Quando abbiamo analizzato la nozione di congruità abbiamo visto che leggere ha due argomenti, x e y, e impone a questi una serie di presupposizioni, di tratti che essi devono possedere. Solo se A1(x), A2(x) e A3(x) x può essere soggetto del verbo leggere; solo se B1(y), B2(y) e B3(y) y può essere oggetto del verbo.
Vediamo per esempio:
→ | sequenza | La sequenza necessariamente è una cosa positiva per entrambi e deve riguardare qualcuno o qualcosa cui mittente e destinatario sono legati. | |
wow | → | mittente | |
→ | destinatario |
Piove | ma non | fa freddo |
(S1) | (S2) |
Questo ma è un connettivo che lega la sequenza S2 alla S1. Anche in questo caso siamo di fronte a un predicato, che impone dei tratti ai suoi argomenti: bisogna che la negazione di 2 sia concomitanza naturale di S1, il secondo argomento deve essere tale che la sua negazione sia concomitanza naturale del primo argomento.
Pensiamo all’incongruità di:
Luigi non studia ma non passa gli esami.
Connettivi come:
Che bello!
Wow!
impongono su quel che segue una sorpresa positiva, basta che sia una novità, una bella novità. Il connettivo impone una serie di tratti che la sequenza deve incarnare; non posso dire:
Che bello, mi ha lasciato il mio moroso!
Notiamo nel testo una rete logica molto forte, dove per logica si intende la complementarità delle parti di un testo, logica nel rispondere di una parte alle altre, nel fatto che ogni elemento è sospeso a questa rete predicativo-argomentale.
La funzione della sequenza è l’insieme delle presupposizioni imposte dal connettivo sulla sequenza. Le funzioni, svolte nella sequenza dai suoi diversi costituenti di sequenza, sono determinate dalla funzione della sequenza, cioè dall’insieme di presupposizioni imposte dal connettivo sulla sequenza. Consideriamo le funzioni svolte dai costituenti della sequenza. Se ad esempio dico:
Che bello! La figlia di Clinton è stata promossa in Linguistica!
la figlia di Clinton è una in rapporto alla quale questo fatto non ci interessa. «non mea refert». Una sequenza non può costituirsi a partire da un’entità che non ci interessa, non può mettere a tema un’entità che non ha un legame col mittente e col destinatario.
Dalla teoria alla didattica
Il fatto che vi sia una forte analogia tra struttura sintagmatica e tessitura del testo è una delle ragioni che rendono interessante il metodo proposto in Nel suono il senso: studiare la lingua a partire dalla sintassi è propedeutico all’incontro con la testualità, principale scopo della riflessione sulla lingua. Certo non si ritiene adeguato agli studenti della secondaria di I grado lo studio della struttura predicativo-argomentale del testo, della gerarchia delle sequenze testuali, pur tuttavia la consapevolezza che nell’atto comunicativo verbale accada un particolare rapporto tra la persona e la realtà, accada cioè qualcosa di unico e irripetibile, è una consapevolezza che non può non informare la didattica, più spesso preoccupata di indagare le invarianti nei testi, anche letterari, per catalogarli e classificarli in tipi e in generi, che tesa a fornire gli strumenti utili per saper dialogare con essi e con la particolare esperienza che li ha generati, al fine di paragonarsi tra uomini.
L’unità 1 dedicata alla comunicazione verbale e la 10 dedicata al testo vogliono appunto mettere a tema innanzitutto il fatto che quando si parla di testo si parla di senso e non esclusivamente di forma. O meglio che forma e contenuto, struttura e funzione, testo e senso non sono scindibili. Ecco perché si intende riportare la testualità innanzitutto all’intenzione comunicativa (Perché si scrive o si parla? Cosa si vuole trasmettere?) e poi alla rispondenza tra l’atto e il contesto (ovverosia quella realtà di eventi, concetti e persone di cui il mittente e il destinatario fanno parte) e infine alla forma che l’atto comunicativo, in base al suo scopo viene ad assumere per raggiungerlo meglio (narrare, descrivere, esporre, argomentare sono atteggiamenti volta a volta privilegiati dal parlante per meglio raggiungere il suo scopo comunicativo: informare, intrattenere, persuadere, conoscere meglio…).
[1] Eddo Rigotti è stato professore ordinario di Linguistica generale all’Università Cattolica di Milano dal 1983 al 2002. All’USI (Università della Svizzera Italiana di Lugano) è stato decano della Facoltà di Scienze della comunicazione dell’USI nella sua prima fase, direttore dell’Istituto Linguistico-Semiotico (ILS), professore ordinario di Comunicazione verbale e Teoria dell’argomentazione. Dal 2000 è editor in chief della rivista “Studies in Communication Sciences”.
[2] E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, Maggioli, Milano 2013.
[3] Nel celebre Lexicon Totius Latinitatis (Forcellini) si annunciano tre significati, due dei quali tuttavia sono quasi identici: «munus tria significat, primo donum, secundo onus, tertio officium». Emile Benvéniste precisa che la nozione di munus esprimeva originariamente in latino la carica pubblica di magistrato e il “regalo” che il magistrato faceva al popolo, cioè gli spettacoli offerti dal magistrato al popolo. Benvéniste osserva anche che il dono non è mai gratuito in quanto pone chi lo riceve in una situazione di debito nei confronti del donante, perciò la natura fondamentale della relazione interpersonale e sociale a molti livelli è il contraccambio e il dono altro non è che una delle due parti costitutive dello scambio. Benvéniste ricollega munus all’indoiranico mitra, che indica il contratto e il dio del contratto — in latino Mercurio. In realtà “contratto” è una resa povera del concetto di «reciprocità totale che fonda la società umana in diritti e obblighi»: si veda E. Benvéniste, Dono e scambio nel vocabolario indoeuropeo, in Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 376-389; p. 383 (ed. orig. Don et échange dans le vocabulaire indoeuropéen, 1951). Il valore originario di munus è, secondo Benvéniste, quello di servizio compiuto: «cariche e privilegi sono due facce della stessa cosa, e questa alternanza costituisce la comunità […] Uno scambio costituito da doni accettati e resi è una cosa completamente diversa cIa un commercio a scopo di profitto. Quando si dona, bisogna donare ciò che si ha di più prezioso» (Ivi., p. 384).
[4] In tedesco un analogo rapporto può essere visto fra i termini Gabe (dono) e Aufgabe (compito).
[5] Il significato di “costoso” era presente in passato anche nell’inglese dear; nel tedesco contemporaneo teuer tende a significare quasi esclusivamente “costoso”, mantenendo il valore di “caro” solo nell’espressione fraseologica lieb und teuer.
[6] Assume un significato particolare quando con questo verbo si indica il collegamento tra luoghi e spazi diversi. Si pensi ai vasi comunicanti o a stanze, case, edifici che comunicano tra loro attraverso porte, ponti, passaggi segreti ecc. su questa linea va interpretata anche l’espressione vie di comunicazione.
[7] «(Zeus) disse così e ubbidì il messaggero Arghifonte [Hermés]. Subito si legò ai piedi i bei sandali, immortali, d’oro, che sia sul mare lo portavano, sia sulla terra infinita, coi soffi del vento. Prese la verga: incanta con essa gli occhi degli uomini che vuole, e altri, dormienti, invece li sveglia. Con essa in mano, il forte Arghifonte volò. Disceso sulla Pieria calò dall’etere in mare: poi si slanciò come uccello sull’onda, come gabbiano che nei seni paurosi del mare infecondo bagna d’acqua salata le salde ali in caccia di pesci: simile a questo, Ermete avanzò su molte onde. Ma quando all’isola giunse, che era lontana, lasciato il mare viola andò sulla terra, finché arrivò alla grande spelonca, nella quale abitava la ninfa dai riccioli belli: la trovò che era in casa» (Odissea V, 43-58. trad. G.A. Privitera).
[8] Non la trasmissione, ma lo scambio sta alla base della comunicazione, non perché la comunicazione sia necessariamente dialogo o conversazione, ma perché si realizza nell’incontro di due atti: espressione e interpretazione.
[9] Si veda E. Rigotti – A. Rocci, Sens – non-sense – contresens, «Studies in Communication Sciences», 2001/1, pp. 45-80 e E. Rigotti, On semiosis, Human Freedom and Education. Semiosis versus Inference and Deixis, in Semiosis as a bridge between Humanities and Sciences, P. Colilli – M. Danesi – P. Perron – D. Santeramo ed., LEGAS, University of Ottawa Press, OttawA 2000, pp. 220-234.
[10] Significativo in merito il contributo di Ch. S. Peirce che introduce il concetto di habit change. Secondo Peirce, la comunicazione riuscita è quella che cambia il destinatario, ossia quella che produce senso in quanto coinvolge la res, ciò che riguarda una persona. A quale livello si colloca questo cambiamento? Peirce afferma che la comunicazione deve toccare e cambiare lo habit del destinatario. Se ciò non avviene, la comunicazione non si può considerare profonda ed efficace; se un atto comunicativo lascia tutto invariato, esso non produce veramente senso.
La parola inglese habit è un prestito dal latino hábitus, derivante dal verbo habére nella sua costruzione se habére ad “atteggiarsi verso”, “rapportarsi”. (Cf. ted. Verhältnis, sp. actitud, fr. attitude, it. atteggiamentoi). Va notato che hábitus, a sua volta, traduce il greco héxis.
[11] Qui diventa interessante recuperare la distinzione aristotelica tra héxis e diáthesis. Sintetizzando i concetti, possiamo la diáthesis è lo stato d’animo, la disposizione emotiva momentanea (es.: essere arrabbiati, o sorpresi…), mentre la héxis è l’atteggiamento stabile, la disposizione permanente (le convinzioni profonde, gli ideali, le motivazioni, gli interessi, gli affetti).[12] La distinzione fra sintagma verbale e sintagma predicativo è stata introdotta da Chomsky che parla di SV per sottolineare il collegamento tra il predicato semantico e si suoi argomenti (di qualunque tipo essi siamo, cioè indipendentemente dal livello, dal numero di argomenti e dalla loro tipologia). Il SV include pertanto i verbi predicativi, cioè quelli contenenti il verbo essere come introduttore di un predicato nominale.
[13] Osserviamo che qui la preposizione è semanticamente vuota.
[14] Il verbo to parse è stato formato a partire dall’enunciato latino “Quae pars?”, con cui il maestro esercitava il discepolo nell’analisi grammaticale.