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4 Re e cavalieri (pag. 210 - 261)
Il valore del mito è che esso prende tutte le cose che conosciamo e restituisce loro il ricco significato che è stato nascosto dal “velo della familiarità”.
Facendo partecipi di un mito il pane, l’oro, il cavallo, la mela o le strade vere e proprie, non fuggiamo dalla realtà: la riscopriamo.
Le storie degli eroi e delle loro imprese sono da sempre state cantate per celebrare la grandezza della vita e per ricordare a ogni uomo ciò per cui val la pena vivere. Così, nelle loro innumerevoli e differenti forme, i racconti di re e cavalieri che ci arrivano dalla tradizione medievale vogliono innanzitutto rendere partecipe il lettore di una storia universale, perché capace di parlare all’uomo di ogni tempo. In essi si ritrovano infatti, espressi con vigore e mirabile immaginazione, le movenze proprie di ogni uomo: il desiderio e la fedeltà, il coraggio e la paura, l’errore e il tradimento… In essi, in fondo, si parla del bene e del male, della felicità e del dolore dell’uomo.
Poemi epici, saghe, racconti popolari, romanzi cortesi: nel corso dei secoli queste storie hanno assunto forme e caratteri differenti, ma non hanno mai perso la loro capacità di raccontare avvenimenti straordinari, spesso capaci di rileggere in chiave mitica fatti realmente accaduti, per rappresentare in una forma chiara e avvincente la società e i suoi ideali. Sono quindi storie in cui ritroviamo l’unione di ciò che è meraviglioso e di ciò che è reale, e che ci accompagnano nella riscoperta della vita come avventura: l’idealizzazione del mondo cavalleresco da una parte ci fa riscoprire la bellezza e la varietà del mondo, dall’altra ci insegna che ogni uomo deve vivere sempre avendo consapevolezza del proprio compito.
Di questi racconti non è sempre facile individuare un singolo autore: se La fanciullezza di Fionn è la riscrittura di una antica leggenda popolare celtica da parte di un importante scrittore irlandese del XX secolo, James Stephens, le storie di Artù e della Tavola Rotonda sono state narrate innumerevoli volte dal medioevo a oggi.
Non solo, la tradizione letteraria si è sempre dovuta confrontare con la letteratura cavalleresca: basti pensare all’Inferno di Dante, dove troviamo Paolo e Francesca, appassionati lettori delle storie di Lancillotto e dei suoi amori; o al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, eroe nostalgico dei giorni gloriosi dei cavalieri.
La tradizione dei romanzi cavallereschi giunge oggi fino a noi: anche i grandi autori di romanzi fantasy, primo fra tutti J.R.R. Tolkien, l’autore de Lo Hobbit e de Il signore degli anelli, si sono confrontati con le storie e il mondo dei cavalieri, attingendo da essi gli ideali e l’immaginario.
In questa sezione, quindi, potrai avvicinarti a una tradizione ampia, complessa e profonda, gustando alcune delle sue storie e seguendo la crescita di alcuni suoi eroi. Ti saranno proposti esercizi di lettura e rilettura dedicati a ritrovare innanzitutto gli elementi principali della narrazione e le caratteristiche dei personaggi; sarà inoltre proposto un percorso di scrittura attraverso il quale ti allenerai principalmente a produrre testi narrativi, sia di riscrittura sia di invenzione; testi informativi, come il riassunto; testi espositivi, a partire dalla riflessione su tematiche incontrate nella lettura.
JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn impara a dialogare con la natura (pag. 214)
Fionn ricevette tra donne la sua prima educazione. Non ci sarebbe da meravigliarsene, perché è la madre che insegna a lottare al suo cucciolo, e le donne sanno che la lotta è un’arte necessaria, anche se gli uomini sostengono che ce ne sono altre migliori. Ma qui le donne erano le druidesse Bovmall e Lia.
Ci si potrà domandare perché mai non fu sua madre a educarlo alle prime durezze. Non le fu possibile. Non poteva tenerlo con sé per paura del clan Morna. A lungo i figli di Morna avevano combattuto e tramato per privare Uail, suo marito, del comando sulle Fiannad’Irlanda, e c’erano finalmente riusciti uccidendolo. Era l’unico mezzo per potersi liberare di un uomo simile; ma non era un mezzo facile, perché ciò che il padre di Fionn ignorava in fatto di armi non avrebbe potuto essergli insegnato nemmeno da Morna stesso. Tuttavia il segugio, che sa attendere, alla fine prenderà la lepre.
Madre di Fionn era la bella Muirne dai Lunghi Capelli (così la si è sempre chiamata).
Quando Uail morì, Muirne si risposò con il re del Kerry. Diede il bimbo da allevare a Bovmall e Lia e possiamo esser certi che insieme al bimbo diede loro delle disposizioni, e molte. Il piccolo fu condotto nei boschi e lì fu segretamente allevato.
È da pensare che quelle donne lo amassero, perché al di fuori di Fionn non c’era attorno altra vita. Fionn era vita per le druidesse, e i loro occhi potevan sembrare una coppia di benedizioni che indugiavano su quella testolina bionda. Era biondo, e fu per il colore dei capelli che venne poi chiamato Fionn; ma in quel tempo il suo nome era Deimne. Videro che il nutrimento dato a quel corpicino si trasformava, verso l’alto e verso il largo, in robusti centimetri e in vigore ed energie, che prima andavano carponi, poi trotterellavano e poi correvano. Ebbe gli uccelli come compagni di gioco, ma furono certo sue compagne tutte le creature che vivono nei boschi. Dovettero esserci per Fionn lunghe solitarie ore nella luce del sole, ore in cui il mondo pareva soltanto luce e cielo; e ore altrettanto lunghe in cui l’esistenza trascorreva come un’ombra fra le ombre, fra la miriade delle ticchettanti gocce di pioggia che scendevano nel bosco di foglia in foglia e scivolavano al suolo. Dovette conoscere piccoli sentieri tortuosi, così stretti che bastava a occuparli la grandezza del suo piedino o di quello di una capra; e chiedersi dove conducessero; e ancora meravigliarsi scoprendo che, dovunque andassero, ritornavano infine, attraverso gli intrecci e i grovigli del fitto bosco, alla sua porta. Dovette pensare che la sua porta era l’inizio e la fine del mondo, da dove tutte le cose si allontanavano e dove tutte arrivavano.
Forse per molto tempo non scorse l’allodola, ma certo l’ascoltò cantare e ancora cantare, lontano dal suo sguardo, nel cielo infinito, finché il mondo sembrò non aver altro suono che quella limpida dolcezza. E quale mondo creava, quel suono! Trilli e cinguettii, ma anche il tubare, gracchiare e gracidare dovettero diventargli familiari. E presto seppe dire quale fratello della gran confraternita producesse questo o quel suono udito a ogni possibile istante. E certo ascoltò le mille voci del vento quando soffiava in ogni stagione e secondo ogni umore.
Forse un cavallo attraversò il fitto fogliame presso quella casa e posò solenne gli occhi su Fionn, come Fionn su di lui; o incontrando d’improvviso il bambino, lo fissò, con occhi, orecchi e narici all’erta e muso tutto allungato, prima di voltarsi e trottare via, con la criniera in alto, gli zoccoli scalpitanti in basso e la coda sbattuta tutt’attorno. Una mucca dal muso maestoso e lo sguardo austero dovette procedere ambiando e lasciare le sue impronte nel bosco di Fionn cercando un posto ombreggiato senza mosche; o una pecora smarrita dovette ficcare il dolce musetto tra le foglie.
“Un bambino” pensò forse Fionn osservando il cavallo che lo osservava, “un bambino non può scuotere la coda per tenere lontane le mosche”: e quella mancanza può averlo rattristato. Forse pensò che una mucca può sbuffare e allo stesso tempo essere dignitosa, e che la timidezza è propria della pecora. E dovette rimbrottare la cornacchia, tentar di superare il tordo nel canto, chiedersi perché la sua voce si stancava e quella del merlo no.
Vi furono certo insetti da osservare, esili cosette che volavano in un alone dorato, piccoli esseri svolazzanti, forti bestiacce dalle ali possenti che si avventavano come gatti e mordevano come cani e fuggivano veloci come fulmini. Forse Fionn pianse perché il ragno, sventurato, aveva catturato quella mosca.
Molto ci dovette essere da guardare, ricordare e confrontare: e sempre c’erano le sue due custodi. Le mosche cambian posto da un momento all’altro, non si può dire se un uccello è stanziale o migratore, una pecora è sorella di ogni altra pecora: invece le donne avevano radici quanto la casa stessa.
- Quali sono gli elementi della natura che Fionn incontra e da cui impara? Sottolinea sul testo e riporta sul quaderno un elenco di ciò che egli trova «da guardare, ricordare e confrontare».
- Lo scrittore pone in evidenza la varietà e la ricchezza della natura che Fionn incontra facendoci sentire i suoi suoni e vedere le sue forme.
Ritrova nel testo le parole e le espressioni capaci di farci entrare nel mondo della narrazione.
- Ritrova nel testo la seguente espressione: «Tuttavia il segugio, che sa attendere, alla fine prenderà la lepre». A che avvenimento si riferisce questo proverbio?
- Fionn «dovette pensare che la sua porta era l’inizio e la fine del mondo, da dove tutte le cose si allontanavano e dove tutte arrivavano».
Racconta e descrivi un tuo luogo che è divenuto, col passare degli anni, un tuo mondo. Anche tu, come Fionn, soffermati nell’osservare suoni, colori, forme…
4.1 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn ascolta i racconti delle sue custodi (pag. 217)
Le druidesse, sue custodi, appartenevano alla gente di suo padre. Bovmall era sorella di Uail e quindi era zia di Fionn.
Quali storie devono aver raccontato al bambino sui figli di Morna! Su Morna stesso, il violento uomo del Connacht dalle spalle possenti e lo sguardo duro; e sui suoi figli: in particolare sul giovane Goll dalle spalle possenti come il padre, altrettanto feroce nell’assalto, ma con lo sguardo gioioso mentre quello del padre era torvo, e con scoppi di risa che facevano perdonare anche le sue atrocità.
Fionn dovette sentir molto parlare dei Morna, e si allenava sulle ortiche a staccare la testa a Goll.
Ma fu di Uail che sentì certo parlare di più.
Con quanta emozione le donne dovettero raccontare storie su di lui, il padre di Fionn. Le loro voci diventavano un inno quando ne narravano gesta su gesta, glorie su glorie: il più famoso tra gli uomini, il più bello, il più forte combattente, il più generoso, il campione del re, il capo delle Fianna d’Irlanda.
Storie di come era caduto negli agguati ed era riuscito a sfuggirne; di come era sempre stato generoso e fiero; di come si era infuriato ed aveva marciato con la velocità di un’aquila, la subitanea precipitazione di una tempesta, mentre di fronte e di fianco, cedendo al prorompere della sua terribile avanzata, scappavano moltitudini che non osavano fronteggiarlo e trovavano appena il tempo di correr via. E di come infine, quando il tempo venne a domarlo, furono necessarie non meno di tutte le forze d’Irlanda per quella grande sconfitta.
In queste avventure Fionn si sentì certo a fianco di suo padre, camminando passo passo con l’eroe dalla grande falcata e incitandolo con forza.
- «In queste avventure Fionn si sentì certo a fianco di suo padre».
Cosa significa questa espressione? Cosa rende possibile questa esperienza per Fionn?
- Inventa e racconta una delle storie che le due druidesse devono aver raccontato a Fionn per spiegargli chi era Morna, chi i suoi figli, e, soprattutto, chi era Uail.
4.2 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn viene messo alla prova (pag. 218)
Nella corsa, nel salto e nel nuoto ricevette dalle donne un buon addestramento.
Una di loro prendeva in mano una verga spinosa, Fionn ne prendeva un’altra ed entrambi cercavano di colpirsi correndo intorno a un albero.
Bisognava correre in fretta per tenersi lontano da una verga che incalzava, e un bambino patisce molto una verga. Fionn doveva correre a più non posso per sfuggire a quelle spine pungenti: e come correva quando aveva lui l’occasione di colpire!
Fionn imparò a correre. Dopo un po’ sapeva ronzare intorno a un albero come una mosca impazzita: e che gioia quando sentiva di allontanarsi dalla verga e guadagnar terreno su chi la teneva in mano! Come si impegnava e ansimava per cercar di raggiungere chi lo inseguiva, essere lui l’inseguitore e mettere in azione la sua verga. Imparò a saltare andando in cerca di lepri in un campo tutto a buche. La lepre saltava, e saltava Fionn, e via tutt’e due per il campo tra salti e rimbalzi. Se la lepre deviava mentre Fionn le era dietro, Fionn cambiava di scatto direzione: in poco tempo non lo preoccupava più in che direzione saltasse la lepre, perché anche lui sapeva fare allo stesso modo. In lungo, in largo e per traverso Fionn saltava dove saltava la lepre, e alla fine era capace di tali salti che qualsiasi lepre avrebbe dato un orecchio pur di saperli fare.
Le druidesse gli insegnarono a nuotare e si sentiva il cuore mancare quando affrontava la lezione. L’acqua era profonda, era fredda. Si poteva scorgerne il fondo leghe, milioni di miglia sotto. Un bambino non poteva fare a meno di rabbrividire quando fissava quel balenio, luccichio, tremolio di ciottoli scuri e di morte!
E quelle donne spietate lo gettavano lì dentro!
Forse all’inizio non ci voleva andare: cercava di sorridere alle due donne, di blandirle e tirarsi indietro. Fionn sentiva di essere null’altro che una gamba o un braccio afferrato come in un’altalena: dentro, fuori, un tuffo, un tonfo; giù, nella gelida profondità mortale; poi su, tossendo, singhiozzando, cercando di aggrapparsi a qualcosa senza riuscire ad afferrare niente, con una furiosa agitazione, una disperazione selvaggia; e un ansimare e gorgogliare quand’era di nuovo calato giù, ancora più giù, sempre più giù, per poi rendersi conto di colpo che era stato tirato fuori.
Fionn imparò a nuotare fino a sapersi tuffare in acqua come una lontra e a guizzarci in mezzo come un’anguilla.
Dava la caccia a un pesce come inseguiva le lepri nel campo pieno di buche: ma un pesce fa dei terribili scatti. Forse un pesce non salta, ma un attimo è qui e quello dopo non c’è più. Sopra e sotto, per lungo e per largo, un pesce è tutto una cosa sola. Va e sparisce. Si gira di qua e scompare dall’altra parte. È sopra di te quando dovrebbe esserti sotto, e ti sta mordendo il piede quando pensavi di potergli mordere la coda.
Non si riesce ad afferrare un pesce nuotando, ma ci si può provare, e Fionn provava.
Ricevette tiepide lodi da parte delle due terribili donne quando fu capace di scivolare silenziosamente nel fiume, nuotare sott’acqua fin dove galleggiava un’anitra selvatica e afferrarla per le zampe.
«Qu» diceva l’anitra, e lui spariva prima che quella avesse il tempo di dire «ac».
Passò il tempo, e Fionn crebbe diritto e forte come un giovane albero, flessibile come un salice, scattante e veloce come un uccellino. Forse una delle donne disse: «Sta crescendo bene il ragazzo mia cara», e l’altra, con il solito tono burbero delle zie, rispose: «Non sarà mai come suo padre».
Ma certo di notte, nel silenzio e nell’oscurità, devono essersi sentite traboccare il cuore pensando a quella agilità vivente che avevano forgiato, a quella cara testolina bionda.
- Quali sentimenti provano le druidesse vedendo Fionn crescere? Perché? Ritrova e sottolinea nel testo i passaggi che ti aiutano a rispondere a questa domanda.
- Individua le parti in cui è possibile dividere il capitolo e riassumi ciascuna di esse in una frase.
- Quali sono le caratteristiche delle due druidesse che permettono a Fionn di crescere? Dopo aver riletto i primi tre capitoli, presenta i personaggi di Bovmall e Lia, mettendo in luce in particolare il loro rapporto con Fionn.
Il testo, lungo una pagina, dovrà avere la seguente struttura:una breve presentazione dei due personaggi e del loro ruolo nella storiala narrazione di alcuni episodi che evidenzino una o più delle caratteristicheun sintetico giudizio conclusivo a proposito del rapporto che intercorre tra le druidesse e il ragazzo.
4.3 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn al seguito dei poeti (pag. 220)
Un giorno le sue custodi si fecero inquiete: confabulavano segretamente e non lasciavano che Fionn stesse a sentire. Al mattino era passato di lì un uomo e aveva parlato con loro. Gli avevano dato da mangiare e intanto Fionn era stato cacciato fuori dalla porta come una gallina. Quando lo straniero aveva ripreso il cammino, le donne erano misteriose e tutto un bisbiglio.
Dissero a Fionn che quella notte avrebbe dovuto dormire su un albero e gli proibirono di cantare o fischiare o tossire o starnutire fino al mattino.Fionn starnutì. Non aveva mai starnutito così in vita sua. Si era sistemato sul suo albero e starnutì tanto che quasi rotolò giù. Gli entrarono nel naso due mosche, due contemporaneamente, una per narice, e per poco la testa non gli si staccò a forza di starnuti.
«Lo fai apposta» diceva un sussurro furibondo che veniva dai piedi dell’albero.Fionn non lo faceva apposta. Si era sistemato alla biforcazione di un ramo, come gli era stato insegnato, e trascorse la notte più raccapricciante e piena di pruriti che mai avesse trascorso. Dopo un po’ aveva voglia non più di starnutire ma di gridare: e soprattutto voleva scendere da quell’albero. Ma non gridò né scese. Mantenne la promessa e rimase sull’albero, zitto e vigile come un topo, finché non fu l’ora di venir giù.
Al mattino passò una compagnia di poeti ambulanti ed a questi le donne consegnarono Fionn. Questa volta non poterono impedirgli di origliare.
«I figli di Morna» dissero le donne.
Il cuore di Fionn si sarebbe gonfiato di rabbia se non fosse già stato avido di avventura. Ciò che era atteso stava accadendo. Dietro ad ogni ora delle loro giornate e ad ogni momento della loro vita c’erano i figli di Morna. Fionn li aveva inseguiti nei cervi, aveva saltato loro dietro nelle lepri, si era tuffato rincorrendoli nei pesci. Vivevano in casa con lui, sedevano alla sua tavola, mangiavano il suo cibo. Di notte li sognava, al mattino ci si aspettava di vederli come si aspetta il sole. Sapevano troppo bene che il figlio di Uail era vivo e che i loro figli non avrebbero conosciuto pace finché quel ragazzo fosse rimasto in vita: perché in quei tempi erano convinti che “Tale il padre, tale il figlio”, e che il figlio di Uail sarebbe stato Uail con qualcosa in più.
Le sue custodi erano consapevoli che il loro nascondiglio sarebbe stato infine scoperto e che allora i figli di Morna sarebbero arrivati. Di ciò non dubitavano, e ogni atto della loro vita era basato su quella certezza. Perché nessun segreto può rimanere segreto. Si può tener nascosto un bimbo, non un ragazzo. Se ne andrà in giro, a meno che lo si leghi a un palo, ma in questo caso si metterà a fischiare.
Poi arrivarono i figli di Morna, ma a riceverli c’erano solo due donne arcigne che vivevano in una casupola solitaria. Ma Fionn se n’era andato. Era lontano, insieme alla compagnia di poeti diretti verso i Monti Galtees.
Probabilmente erano giovani poeti che al termine di un anno di addestramento ritornavano nella loro provincia per rivedere la gente di casa e farsi acclamare e ammirare dando saggio delle conoscenze acquisite nelle famose scuole. Dovevano conoscere citazioni in rima e giochi di parole eruditi, e Fionn li stava ad ascoltare; a volte, fermandosi in una radura o presso la riva di un fiume, ripassavano le loro lezioni.
Quella compagnia di giovani bardi doveva interessare moltissimo Fionn, non per ciò che avevano studiato, ma per ciò di cui avevano esperienza.
Tutto quanto avrebbe dovuto naturalmente conoscere, l’aspetto, il movimento, la sensazione delle folle, i rapporti e i contrasti tra gli uomini, i raggruppamenti di case, come la gente ne entra e ne esce, le mosse degli uomini in armi, l’aspetto delle loro ferite al ritorno a casa, le storie di nascite, matrimoni e morti, la caccia con le sue moltitudini di uomini e di cani, tutto il fragore, la confusione, l’eccitazione del vivere, tutte queste cose dovevano sembrare meraviglie a Fionn, appena giunto da foglie, ombre e chiaroscuri di bosco; e meravigliose dovevan essere per lui anche le storie che essi raccontavano sui maestri, con i loro sguardi, le manie, la severità, le piccole stranezze. Quella compagnia chiacchierava proprio come uno stormo di cornacchie.
- Ciò che era atteso stava accadendo»: cosa sta accadendo che Fionn attende con tanto desiderio? Che sentimenti accompagnano l’attesa di Fionn?
- Fionn, con il passare del tempo, sembra sempre più assomigliare al padre: sottolinea le espressioni che indicano questo aspetto della sua crescita.
- Quale nuovo mondo incontra Fionn attraverso i poeti?
- Elenca in un sommario i fatti essenziali di questo capitolo.Attento: non tutti sono raccontati in maniera esplicita!
4.4 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn in compagnia di un brigantaccio (pag. 222)
Dovevano essere ben giovani quei poeti, perché un giorno un brigantaccio di nome Fiacuil li assalì e li uccise tutti. Fionn vide ciò che succedeva e il sangue gli si dovette gelare mentre osservava quel brigante dar la caccia ai poeti come un cane selvatico infierisce in un gregge. E quando venne il suo turno, quando tutti erano morti e l’uomo feroce con mani rosse di sangue gli si fece incontro, Fionn certo rabbrividì: ma gli mostrò i denti e si gettò con le mani sul mostro. Forse fece così, e forse per questo fu risparmiato.
«Chi sei tu?» ruggì quella bocca nera spalancata con la lingua infuocata che si contorceva come un pesce guizzante.
«Il figlio di Uail» dichiarò intrepido Fionn. E a queste parole il brigante cessò di essere brigante, scomparve l’assassino, ed eccolo lì, sorridente e piangente, servitore affezionato, che si sarebbe annodato il corpo intero per far piacere al figlio del suo grande capitano. Fionn andò a casa del ladrone, portato sulle sue spalle, e per via il ladrone sbuffava e saltava comportandosi come un cavallo di razza.
Questo Fiacuil era il marito di Bovmall, zia di Fionn; quando il clan era stato sconfitto, si era dato ad un’esistenza selvaggia e si sentiva in guerra contro un mondo che aveva osato uccidere il suo Capo.
Fu una nuova vita per Fionn quella nel covo del ladrone, nascosto in una vasta e fredda palude.
Doveva essere un luogo infido con imprevedibili uscite e ancor più improvvisi ingressi, con anfratti umidi, tortuosi come ragnatele, in cui ammucchiare tesori o rimanere nascosti.
Se il brigante viveva solitario, dovette, in mancanza d’altri, fare lunghe conversazioni con Fionn. Gli mostrò certo le sue armi facendogli vedere come le usava, con quali colpi riduceva a pezzi la sua vittima e con quali lame la affettava: dovette spiegargli perché per un uomo bastava un colpo mentre un altro doveva proprio essere affettato. Tutti sono maestri agli occhi di un giovane, e Fionn anche qui trovò da imparare. Poté vedere la grande lancia di Fiacuil, che aveva trenta borchie d’oro d’Arabia sulla cima e che bisognava tener avvolta e legata perché non uccidesse qualcuno per puro dispetto. Quella lancia arrivava dal regno sotterraneo, dal Shì, e vi sarebbe stata in futuro riportata tra le scapole di quello stesso signore.
Quali storie poté raccontare a un ragazzo, quali domande un ragazzo gli poté fare! Conosceva mille astuzie, e poiché il nostro istinto è di insegnare e nessuno riesce a nascondere un’astuzia a un ragazzo, Fiacuil gliele svelò.
E c’era la palude: tutta una nuova vita da conoscere; una vita in mezzo alle canne, intricata, misteriosa, madida, viscida, traditrice, ma con una sua bellezza e un fascino che ti prendevano e ti facevano dimenticare il mondo della terraferma, e amare soltanto quello malfermo e gorgogliante.
Visse in quel luogo finché le sue custodi scoprirono dov’era e lo raggiunsero. Fiacuil lo riconsegnò e Fionn fu portato ancora nella casa tra i boschi, ma aveva intanto acquisito una grande conoscenza e una nuova agilità.
I figli di Morna lo lasciarono in pace per un bel po’. Se ne disinteressarono perché avevano già fatto il loro tentativo.
«Verrà lui da noi quando sarà tempo» dicevano. Ma è anche probabile che avessero i loro modi di ricevere informazioni su di lui: come crescesse, che muscoli avesse, se si facesse già avanti da solo o avesse bisogno di essere spinto.Fionn restò con le sue custodi andando a caccia per loro.
Il clan Morna però incominciava a diventare inquieto perché si stavano diffondendo notizie sul valore di Fionn; così un giorno le sue custodi lo fecero partire.
Fionn se ne andò via in cerca di fortuna, a misurarsi con tutto ciò che gli sarebbe accaduto, e a scolpire per sé un nome che vivrà finché il Tempo avrà orecchio e saprà di un irlandese.
- Quali caratteristiche possiede Fiacuil? Ritrovale e sottolineale nel testo.
- Quali caratteristiche del luogo in cui vive rispecchiano la personalità del brigante? Ritrovale e sottolineale nel testo.
- «Tutti sono maestri agli occhi di un giovane, e Fionn anche qui trovò da imparare».Cosa impara Fionn dal brigante e dalla palude? Scrivi un testo che racconti ciò che accade a Fionn in questo capitolo e ciò che egli guadagna dall’incontro che fa. Per organizzare la struttura del testo, prima di iniziare a scrivere, costruisci un sommario degli avvenimenti principali del capitolo.
- Anche a te è mai capitato di imparare da una situazione o da una persona da cui non ti aspettavi niente di buono? Paragonandoti con il rapporto tra Fionn e Fiacuil, racconta la tua esperienza. Il testo, lungo circa una pagina, dovrà avere la seguente struttura: una breve introduzione che spieghi la situazione in cui ti sei trovato; una parte narrativa che racconti ciò che ti è capitato e quello che ti ha sorpreso; una conclusione che esprima ciò che hai scoperto, anche in rapporto a ciò che accade a Fionn in questo episodio.
4.5 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Il dono della perfetta conoscenza (pag. 224)
Tutti i desideri sono passeggeri, tranne uno, ma questo dura tutta la vita. Fionn tra tanti altri desideri ne aveva uno persistente: per la conoscenza sarebbe andato ovunque, avrebbe rinunciato a qualsiasi cosa. E proprio alla ricerca della conoscenza arrivò nel luogo dove viveva Finegas, sulla riva del fiume Boyne. Ma per paura del clan Morna non ci andò con il nome di Fionn: in quel viaggio si faceva chiamare Deimne.
Diventiamo saggi facendo domande, lo diventiamo anche se non hanno risposta, perché una domanda ben costruita porta la sua risposta con sé, sulla schiena, come una chiocciola porta il suo guscio. Fionn poneva tutte le domande a cui poteva pensare, e il suo maestro, un poeta, dunque un uomo stimabile, a tutte rispondeva: non fino al limite della sua pazienza, che era illimitata, ma fino al limite delle sue capacità.
«Perché vivi sulla riva di un fiume?» fu una delle domande.
«Perché una poesia è una rivelazione, ed è sulle rive dell’acqua corrente che la poesia viene rivelata alla mente».
«Ma perché, tra tutti i fiumi, hai scelto questo?»
Finegas sorrise radioso al suo discepolo.
«Ti direi qualsiasi cosa» rispose. «Quindi ti dirò anche questo».
Fionn si sedette ai piedi di quell’uomo gentile, le mani abbandonate tra l’erba alta, tutt’orecchi per ascoltarlo.
«Mi è stata fatta una profezia» iniziò Finegas. «Un sapiente mi predisse che avrei catturato il Salmone della Conoscenza nella Pozza del fiume Boyne».
«E allora?» chiese Fionn ansioso.
«Allora avrei posseduto la completa conoscenza» rispose Finegas.
Un giorno Finegas andò dov’era Fionn. Il poeta aveva al braccio un cesto di vimini poco profondo, e sul suo volto c’era uno sguardo ad un tempo mesto e trionfante. Era certamente eccitato, ma anche triste, e, mentre restava a fissare Fionn, i suoi occhi erano così dolci che il ragazzo ne fu toccato, ma erano anche così malinconici che per poco non lo fecero piangere.
«Che cos’è, maestro?» domandò il ragazzo turbato.
Il poeta posò il cesto di vimini sull’erba.
«Guarda nel cesto, figliolo» disse.
Fionn guardò.
«C’è un salmone nel cesto».
«È il Salmone» disse Finegas con un profondo sospiro.
Fionn saltò di gioia.
«Sono felice per te, maestro» esclamò. «Sono davvero felice per te».
«Anch’io sono felice, anima mia» replicò il maestro. Ma dopo averlo detto chinò la fronte sulla mano e rimase a lungo in silenzio, raccolto in sé.
«Che cosa bisogna fare, ora?» domandò Fionn guardando il meraviglioso pesce.Finegas si alzò dal posto dov’era seduto vicino al cesto di vimini.
«Tornerò tra poco» disse con voce grave. «Mentre sono lontano puoi far arrostire il salmone, così sarà pronto al mio ritorno».
«Lo farò arrostire di sicuro!» disse Fionn.
Il poeta fissò Fionn a lungo, seriamente.
«Non assaggerai per caso un po’ del mio salmone mentre sono via?»domandò.
«Non ne mangerò neppure un pezzettino» disse Fionn.
«Sono sicuro che non lo farai» mormorò l’altro voltandosi e camminando lento tra l’erba e oltre i fitti cespugli lungo la sponda.
Fionn cucinò il salmone. Era bello, appetitoso, stuzzicante mentre fumava su un piatto di legno tra le fresche foglie verdi; e così apparve a Finegas quando uscì dal filare di cespugli e si sedette sull’erba, fuori dalla sua porta. Fissò il pesce molto più che con i soli occhi: lo guardò con il cuore, con l’anima negli occhi, e quando volse lo sguardo verso Fionn, il ragazzo non seppe se l’amore che era in quegli occhi fosse per il pesce o per lui. Sapeva, però, che per il poeta era arrivato un grande momento.
«Così» disse Finegas «non me ne hai davvero mangiato?»
«Non ho forse promesso?» replicò Fionn.
«Ma io me ne sono andato» continuò il maestro «proprio perché tu potessi mangiare il pesce, se sentivi di volerlo fare».
«Perché dovrei volere il pesce di un altro?» disse Fionn con orgoglio.
«Perché i giovani hanno forti desideri. Pensavo che forse l’avresti assaggiato e poi me l’avresti mangiato».
«Per puro caso l’ho proprio assaggiato» rise Fionn. «Mentre il pesce cuoceva si è formata sulla pelle una grossa vescica. Non mi piaceva l’aspetto di quella bolla e l’ho schiacciata con il pollice. Mi sono bruciato il dito, così l’ho succhiato per dar sollievo al bruciore. Se il tuo salmone è buono come lo era il mio pollice» rise ancora «sarà proprio ottimo».
«Che nome hai detto di avere, cuor mio?» domandò il poeta.
«Ho detto che il mio nome era Deimne».
«Il tuo nome non è Deimne» disse quell’uomo mite. «Il tuo nome è Fionn»
«È vero» rispose il ragazzo. «Che altro sai di me, maestro caro?»
«So che non ti ho detto la verità» disse quell’uomo con il cuore gonfio.
«Ti avevo detto che secondo la profezia avrei dovuto catturare il Salmone della Conoscenza, ma non ti ho detto, sebbene fosse nella profezia, che non da me il salmone doveva essere mangiato: la mia bugia era in quella omissione».
«A chi dunque era destinato il pesce?» chiese il suo compagno.
«Era destinato a te» rispose Finegas. «Doveva essere destinato a Fionn figlio di Uail: e a lui sarà dato».
«Ti darò metà del pesce!» esclamò Fionn.
«Non ne mangerò neppure un pezzettino piccolo come la punta della sua più piccola lisca» disse risoluto e fremente il bardo. «Ora mangiati tutto il pesce; io ti starò a guardare e loderò gli dei».
Allora Fionn mangiò il Salmone della Conoscenza e quando ebbe finito al poeta ritornò una grande letizia, serenità ed esuberanza.
- Quali caratteristiche di Fionn e Finegas vengono messe in evidenza in questo episodio? Rispondi facendo precisi riferimenti al testo, come nell’esempio:Fionn afferma che… da ciò posso capire che…Finegas si comporta così… da ciò posso capire che…
- Individua i fatti essenziali e scrivi un breve riassunto del capitolo per mettere in luce le caratteristiche di Fionn e di Finegas. Per aiutarti a strutturare adeguatamente il testo, prima di scrivere costruisci un sommario che raccolga i fatti essenziali dell’episodio.
4.6 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn fa il suo ingresso nella città dei re (pag. 227)
Da Finegas aveva ricevuto tutto ciò che era possibile ricevere. La sua educazione era terminata, ed era venuto il tempo di metterla alla prova e sperimentare tutte le altre capacità della mente e del corpo.
Diede l’addio al dolce poeta e partì per Tara dei Re, dove si radunavano quanti in Irlanda erano saggi, capaci o nobili.
Fionn aveva disposto il suo arrivo per la grande festa di Samhain, a fine ottobre, e rimase certamente stupito vedendo quella splendida città, con le sue colonne di bronzo lucente e i tetti dipinti in mille colori per cui ogni casa pareva coperta dalle ali spiegate di un gigantesco e sgargiante uccello. Le stesse dimore nel caldo colore della quercia rossa, diventata lucida all’interno e all’esterno per l’uso e le cure millenarie, scolpita dalla paziente perizia di innumerevoli generazioni dei più rinomati artisti nel più artistico paese d’occidente, furono certo per lui occasione di gran meraviglia. Dovette sembrargli una città di sogno, una città da rubare il cuore quando, arrivando dalla grande piana, Fionn vide Tara dei Re tenuta sulla collina come in una mano che raccoglie tutto l’oro del sole al tramonto e restituisce uno splendore tenero e caldo come quell’universale prodigalità.
Nella grande sala del banchetto tutto era pronto per la festa. I nobili d’Irlanda con le loro avvenenti consorti, i più eccellenti rappresentanti dei mestieri e delle arti di quel tempo erano ai loro posti. L’Ard-Rì, il re supremo d’Irlanda, aveva preso posto sul palco che dominava tutta la vasta sala. Alla sua destra c’era il figlio Art, destinato a diventare in seguito famoso come il suo illustre padre; alla sua sinistra aveva il seggio d’onore Goll, capo delle Fianna d’Irlanda. Quando il re supremo prendeva posto, poteva vedere tutti quelli che nel paese fossero per qualche ragione insigni.
L’Ard-Rì fece un cenno e i suoi ospiti si sedettero.
Era tempo che gli scudieri andassero a mettersi dietro ai loro signori e alle signore, ma per il momento nella grande sala tutti erano seduti, e le porte rimasero ancora chiuse per permettere una pausa di rispetto prima che entrassero servitori e scudieri.
Guardando dall’alto i suoi ospiti, L’Ard-Rì notò che un giovane era ancora in piedi.
«Dimmi il tuo nome» gli intimò con dolcezza.
«Sono Fionn figlio di Uail» disse il giovane.
A quelle parole una fulminea emozione serpeggiò tra i presenti e tutti rabbrividirono. Il figlio del grande capitano ucciso guardò accanto alla spalla del re, nell’occhio scintillante di Goll.
Ma non ci fu una parola, non un gesto, oltre il gesto e la parola dell’Ard-Rì.
«Sei il figlio di un amico» disse il sovrano dal cuore nobile. «Avrai il posto di un amico».
E fece sedere Fionn alla destra del suo stesso figlio Art.
- Quali caratteristiche possiede la città di Tara tanto da essere definita«una città da rubare il cuore»?
- Con quali parole Fionn si presenta alla corte dell’Ard-Rì? Che qualità e quali intenzioni mostra Fionn pronunciando queste parole? Quali sono le reazioni di chi lo ascolta? Perché?
- Immagina e scrivi il discorso che Fionn avrebbe potuto pronunciare per presentare sé stesso. Scrivendo in prima persona, racconta dunque chi è Fionn, quali sono stati gli episodi che fino a questo momento hanno formato la sua personalità, quali sono le sue principali qualità e quali sono i suoi desideri e i suoi obiettivi.
4.7 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn si offre per una pericolosa impresa (pag. 229)
Bisogna sapere che durante la notte della festa di Samhain le porte che separano questo mondo dall’altro si aprono, e tutti gli abitanti possono lasciare le rispettive sfere e comparire nel mondo degli altri esseri.
Ebbene, c’era Aillen, un nipote del signore del Shì, il Regno Sotterraneo, che nutriva un odio implacabile verso Tara e l’Ard-Rì.
Terminata la festa e iniziato il banchetto, L’Ard-Rì si levò dal seggio e guardò la sua gente radunata. «Amici ed eroi» disse «Aillen verrà questa notte contro la nostra città con il suo fuoco occulto e distruttore. C’è tra voi qualcuno che ami Tara e il suo re e che voglia assumersi la nostra difesa contro quell’essere?»
Parlò nel silenzio, e alla fine udì quello stesso silenzio diventato più profondo, angosciante, sinistro. Ciascuno lanciava occhiate vergognose al vicino e poi fissava la propria coppa di vino o le proprie dita. I cuori dei giovani per un nobile istante si erano infiammati ma un attimo dopo si erano raggelati, perché tutti avevano sentito parlare di Aillen, là nel nord. I signori di grado inferiore guardavano di sottecchi i campioni di grado superiore, e questi lanciavano occhiate furtive a quelli del grado ancora più elevato.
Un tremendo imbarazzo pervase la grande sala, e mentre il re rimaneva in piedi in quel palpitante silenzio, Fionn si alzò.
«Che cosa verrà dato all’uomo che si assumerà il compito di questa difesa?» disse.
«Tutto ciò che a buon diritto può essere richiesto sarà regalmente concesso» fu la risposta del re.
«Chi sono i garanti?» disse Fionn.
«I re d’Irlanda e Cith il Rosso con i suoi maghi».
«Assumerò io il compito della difesa» disse Fionn.
A quelle parole i re e i maghi presenti si impegnarono perché il patto venisse rispettato.
Fionn uscì con passo deciso dalla sala del banchetto e, mentre l’attraversava, tutti i presenti, nobili, persone del seguito e servitori, lo acclamarono e gli augurarono buona sorte. Ma nei loro cuori gli stavano dando l’addio, perché tutti erano sicuri che il giovane andava incontro a una morte così inevitabile che lo si poteva già considerare un uomo morto.
- Qual è la reazione degli ospiti alle parole dell’Ard-Rì? Cosa mette in luce della loro personalità? Sottolinea le parole del testo che ti permettono di rispondere alla domanda.
- Come reagisce invece Fionn? Cosa capiamo di lui dalle sue parole e dalle sue azioni? Sottolinea le parole del testo che ti permettono di rispondere alla domanda.
- Rileggi i capitoli 7 e 8, che raccontano dell’arrivo e della permanenza di Fionn presso la città di Tara. Dopo aver costruito un sommario che elenchi gli avvenimenti più importanti, scrivi un riassunto per mettere in luce le caratteristiche di Fionn che si mostrano in questi episodi.
- Racconta gli episodi dei capitoli 7 e 8 assumendo il punto di vista di unodei nobili della corte dell’Ard-Rì. Metti quindi in evidenza i tuoi sentimenti e le tue reazioni nell’osservare il comportamento di Fionn.
4.8 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn non è da solo (pag. 231)
Fionn oltrepassò il seguito delle fortificazioni, raggiunse le grandi mura esterne, confine della città e, al di là di quelle, si trovò nella vasta piana di Tara.
Non c’era in giro anima viva, tranne lui, ma le tenebre non eran cosa da spaventare Fionn, cresciuto tra la nera oscurità dei boschi, vero figlio adottivo del buio; né il vento poteva turbare il suo orecchio o il suo cuore. In tale orchestra non c’era una nota su cui non si fosse soffermato e che non si accordasse (e questo accordarsi è magico) con lui. Ascoltando nel buio il groviglio di rumori che costituiscono un rumore, sapeva districarli e assegnare posto e ragione a ciascuna gradazione dei suoni che formavano il coro: c’era lo scalpiccio di un coniglio e la rapida corsa di una lepre; laggiù frusciava un cespuglio, ma quel fruscio breve era un uccello; quel procedere era di un lupo, quell’esitare di una volpe; a grattare laggiù era solo una foglia ruvida contro una corteccia, a raspare era l’unghia di un furetto.
Non può esserci paura dove c’è conoscenza, e Fionn non aveva paura.
La sua mente, calma e attenta in ogni direzione, colse un suono e vi si soffermò. “Un uomo” disse tra sé Fionn, e tese l’orecchio da quella parte, indietro, verso la città.
Era un uomo, e conosceva le tenebre quasi quanto Fionn.
“Non è un nemico” pensò Fionn. “Cammina allo scoperto”.
«Chi viene?» chiese.
«Un amico» disse il nuovo venuto.
«A questo amico dai un nome» disse Fionn.
«Fiacuil» fu la risposta.
«Ah, battito del mio cuore!» esclamò Fionn, facendosi incontro al gran ladrone che gli era stato padre adottivo tra le paludi.
«Dunque non hai paura» disse Fionn con gioia.
«A dire la verità, ho paura sì» mormorò Fiacuil. «E appena questa faccenda con te sarà finita, me ne tornerò indietro al galoppo, veloce quanto mi porteranno le gambe. Che gli dèi proteggano il mio ritorno come hanno protetto la mia venuta» disse con tono devoto il ladrone.
«Amen» disse Fionn. «Ma ora dimmi perché sei venuto».
«Hai qualche piano contro quel signore dei Shì?» sussurrò Fiacuil.
«Lo attaccherò» disse Fionn.
«Questo non è un piano» sbottò l’altro. «Non si fa il piano di andare all’attacco, ma di conquistare la vittoria».
«È proprio un essere così terribile?» domandò Fionn.
«Assolutamente terribile. Nessuno può avvicinarsi a lui e neanche allontanarsene. Viene fuori suonando una musica dolce e sommessa con un flautino, e tutti quanti, sentendo questa musica, cadono addormentati».
«Io non mi addormenterò» disse Fionn.
«Ti addormenterai di sicuro, perché capita a tutti».
«E poi che succede?» domandò Fionn.
«Quando tutti sono addormentati, Aillen sprigiona dalla bocca una freccia infuocata e tutto ciò che è raggiunto da quel fuoco viene distrutto; può mandare il suo fuoco a distanza incredibile, in qualsiasi direzione».
«Hai un bel coraggio a venire in mio aiuto» mormorò Fionn «specialmente quando non puoi aiutarmi in alcun modo».
«Posso essere di aiuto» replicò Fiacuil «ma devo essere ricompensato».
«Quale ricompensa?»
«Un terzo di ciò che otterrai e un seggio nel tuo consiglio».
«Te lo concedo» disse Fionn. «E ora dimmi il tuo piano».
«Ricordi la mia lancia con trenta borchie d’oro d’Arabia sulla cima?»
«Quella che aveva la punta avvolta nella tela ed era immersa in un secchio d’acqua e incatenata a un muro? La mortale Birgha?» domandò Fionn.
«Quella» rispose Fiacuil. «È proprio la lancia di Aillen» continuò. «Fu tuo padre a sottrarla».
«E allora?» disse Fionn che intanto si chiedeva dove Fiacuil stesse tenendo la lancia, ma era troppo magnanimo per domandarglielo.
«Quando senti arrivare Aillen, srotola la punta della lancia e chinaci sopra la faccia: il suo calore, l’odore e tutte le sue qualità acri e perniciose ti impediranno di addormentarti».
«Ne sei sicuro?» disse Fionn.
«Non potresti addormentarti vicino a quel fetore, nessuno ci riuscirebbe» rispose deciso Fiacuil. Poi continuò: «Nel momento in cui finirà di suonare e comincerà a soffiare il suo fuoco, Aillen smetterà di stare in guardia; crederà che tutti dormano e allora potrai sferrare l’attacco di cui parlavi: e che la buona sorte ti accompagni».
«Gli rispedirò la sua lancia» disse Fionn.
«Eccola» disse Fiacuil estraendo la Birgha dal mantello. «Ma non fidarti, battito del mio cuore, abbine paura».
«Non avrò paura di niente» disse Fionn. «L’unica persona per cui mi dispiacerà sarà quell’Aillen che sta per riceversi la sua lancia».
«Adesso me ne vado, perché sta crescendo il buio dove non pensavo ci fosse ancora posto per altra oscurità» disse a bassa voce il suo compagno. «E c’è nell’aria qualcosa di strano che non mi piace per niente. Quell’uomo può arrivare da un momento all’altro, e se sento anche solo una nota della sua musica sono finito».
Il ladrone si allontanò e Fionn fu di nuovo solo.
- «Non può esserci paura dove c’è conoscenza».
Di cosa Fionn dovrebbe avere paura? Cosa invece permette a Fionn di non avere paura?
- Riscrivi il dialogo tra Fionn e Fiacuil volgendolo al discorso indiretto.
Per fare questa operazione ti può essere utile rileggere il testo e individuare i suggerimenti che il brigante consegna al ragazzo.
4.9 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN. Fionn mette alla prova ciò che ha imparato (pag. 234)
Rimase ad ascoltare i passi che si allontanavano, finché non riuscì più a sentirli e il battito del cuore fu l’unico suono che giungesse alle sue orecchie protese.
Era cessato anche il vento e non sembrava esserci al mondo altro che lui e le tenebre. In quel buio abissale in quell’invisibile silenzio e vuoto, la mente poteva cessare di essere presente a sé stessa. Poteva essere sopraffatta e inghiottita nello spazio, sicché la coscienza deviasse o si dissolvesse, e ci si potesse addormentare pur stando in piedi: perché la mente teme la solitudine più di ogni altra cosa e fuggirebbe sulla luna piuttosto di essere tratta a ripiegarsi su sé stessa.
Eppure Fionn non si sentiva solo e non aveva paura dell’arrivo di Aillen.
Era già trascorsa gran parte della notte silenziosa in un lento avvicendarsi di minuti, in cui non c’era mutamento, né quindi tempo, né passato, né futuro, ma soltanto un attonito, eterno presente, quasi un annullamento della coscienza. Ma poi qualcosa mutò, perché le nuvole avevano continuato a muoversi e dietro di loro apparve infine la luna: non come uno splendore ma come una luminosità diafana, un fioco bagliore che filtrava attraverso gli elementi fino ad apparire meno del fantasma o del ricordo di sé stesso; una cosa percepita in modo tanto sottile e rarefatto che l’occhio poteva domandarsi se la vedeva o no, pensare se fosse la memoria a creare qualcosa che era ancora assente.
Ma l’occhio di Fionn era l’occhio di una creatura della foresta che scruta nelle tenebre e vi si muove coscientemente. Vide quindi non un oggetto, ma un movimento: qualcosa che era più scuro dell’oscurità su cui si profilava; non un’entità ma una presenza, un procedere incombente, come infatti era. E dopo un attimo udì il lento avanzare di quell’essere enorme.
Fionn si chinò sulla lancia liberandola da ciò che la copriva.
Poi, dalle tenebre, venne un altro suono: un suono sommesso e dolce, così gioioso e sommesso da entusiasmare; così sommesso che l’orecchio poteva appena coglierlo, così dolce che l’orecchio non voleva percepire altro e avrebbe fatto ogni sforzo per ascoltare quel suono piuttosto che qualsiasi altro possibile: era musica di un altro mondo.
Tanto dolce che i sensi si protendevano per raggiungerla e poi dovevano, nel sonno, seguire la sua scia e in essa sprofondare senza poter tornare indietro, finché quella strana armonia non fosse cessata e l’orecchio riportato alla sua libertà.
Ma Fionn, tolta la copertura della lancia, vi premeva contro la fronte, e così teneva la mente e i sensi legati a quella punta incandescente e micidiale.
La musica cessò, e Aillen lanciò sibilando dalla bocca una terribile fiamma blu, e fu come se avesse lanciato un fulmine.
Parrebbe che Fionn, in quest’occasione, abbia usato la magia, infatti distendendo il suo mantello frangiato catturò la fiamma, o meglio la fermò, perché questa scivolò giù dal mantello e andò direttamente nel terreno fino alla profondità di ventisei spanne; così ancor oggi quel pendio è chiamato “la Valle del Manto”, e il colle su cui stava Aillen è conosciuto come “l’Altura del Fuoco”.
Si può immaginare la sorpresa di Aillen vedendo il suo fuoco catturato e spento da una mano invisibile. E si può anche comprendere come a questa prova si sia spaventato: chi può essere più terrorizzato di un mago che vede fallire le proprie arti magiche e, conoscendo i poteri occulti, immagina poteri di cui non ha conoscenza e che quindi può ben temere?
Aveva fatto ogni cosa come doveva. Aveva suonato il flautino; tutti coloro che avevano ascoltato quella musica dovevano quindi essere addormentati: eppure il suo fuoco era stato catturato in piena corsa e spento.
Aillen, con tutta la terrificante forza di cui era campione, soffiò nuovamente, e la grande lingua di fuoco blu che gli uscì con un sibilo e un ruggito venne ancora catturata e sparì.
Il panico afferrò l’uomo del Shì. Volse le spalle a quel luogo spaventoso e fuggì, senza sapere cosa ci potesse essere dietro, ma temendola come non aveva mai temuto nulla; e lo sconosciuto lo inseguì: chi si era difeso in modo così formidabile si trasformò in attaccante, e gli si mise dietro come un lupo che incalza un toro al fianco.
Aillen, poi, non era nel suo mondo: era nel mondo degli uomini, dove muoversi non è facile e l’aria stessa è un peso. Nella sua sfera, nel suo elemento, avrebbe potuto distanziare Fionn; ma questo era il mondo di Fionn, il suo elemento, e quel dio veloce non era abbastanza forte per vincerlo. La sua fu comunque una corsa eccezionale, perché l’inseguitore gli arrivò abbastanza vicino soltanto all’ingresso del Shì. Fionn mise un dito nella cinghia della grande lancia e a quel gesto la notte scese su Aillen: i suoi occhi si ottenebrarono, la sua mente turbinò e si arrestò, e dov’era il suo essere prese sopravvento il nulla; quando la Birgha gli sibilò tra le scapole, egli avvizzì, cadde a terra svuotato e morì. Fionn gli spiccò dalle spalle la bellissima testa e nella notte tornò verso Tara.
- Quali conoscenze permettono a Fionn di sconfiggere Aillen?Quali sue abilità vengono messe alla prova?
- In che senso Fionn «non si sentiva solo» nel Regno Sotterraneo?
- Facendoti guidare dal tuo professore di Arte e Immagine, racconta il duello tra Fionn e Aillen attraverso un fumetto. Prima di disegnare, individua le scene che costruiscono l’episodio e scrivi le didascalie delle vignette che disegnerai successivamente.
4.10 JAMES STEPHENS. LA FANCIULLEZZA DI FIONN, Fionn viene riconosciuto re delle Fianna d’Irlanda (pag. 236)
Fionn raggiunse il palazzo all’alba.
Quel mattino tutti si erano alzati presto. Volevano vedere quali distruzioni avesse recato l’essere portentoso; ma ciò che videro fu il giovane Fionn, e quella formidabile testa che penzolava per i capelli.
«Qual è la tua richiesta?» disse l’Ard-Rì.
«Ciò che a buon diritto dovrei domandare» disse Fionn: «il comando delle Fianna d’Irlanda».
«Fai la tua scelta» disse l’Ard-Rì rivolto a Goll. «Abbandona l’Irlanda o metti la tua mano nella mano del campione e diventa uno dei suoi uomini».
Goll riuscì a fare una cosa che per altri sarebbe stata difficile, e la fece così bene da non venirne affatto sminuito.
«Ecco la mia mano» disse Goll.
E mentre compiva l’atto di sottomissione, di fronte ai giovani occhi che lo guardavano severi, ammiccò.
- «Goll riuscì a fare una cosa che per altri sarebbe stata difficile»: cosa riuscì a fare Goll di tanto difficile?Perché per altri «sarebbe stata difficile»?
- Immagina di svegliarti anche tu quel mattino presto nella città di Tara: riporta i dialoghi tra gli abitanti della città dell’Ard-Rì che precedono il ritorno di Fionn, che commentano il suo arrivo, che giudicano la conclusione del racconto e l’azione di Goll.
Al termine della lettura dell’intero racconto, rispondi alle seguenti domande per ripercorrere la storia di Fionn.
- Chi è Fionn, figlio di Uail? Scrivi un testo che presenti il personaggio ele sue principali caratteristiche. Il testo, lungo circa due pagine,dovrà essere così strutturato:una breve parte iniziale che introduca rapidamente il personaggiola narrazione di alcuni episodi che mettano in luce le sue principali caratteristicheuna conclusione che espliciti il giudizio sul personaggio.
- Nella lettura del racconto, hai certamente incontrato alcune frasi significative, in cui si condensa ciò che Fionn scopre negli incontri che fa. Raccoglile, scegline una e spiega come questa si rende vera nella narrazione. Il testo, lungo circa due pagine, dovrà essere così strutturato:
una breve introduzione che riporti e spieghi la citazione
la narrazione di alcuni episodi del racconto che certifichino la sua verità
una conclusione che sintetizzi il significato della citazione.
- Racconta un’esperienza vissuta con la tua classe in cui hai scoperto qualcosa di nuovo e importante. Sul modello del racconto di Fionn, racconta sempre quello che hai visto, come hai agito, ciò che hai imparato.
- Inventa un nuovo possibile capitolo della storia di Fionn che metta in luce le caratteristiche sue e di altri personaggi.
4.12 I ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA, I ROMANZI DELLA TAVOLA
ROTONDA, Chretien de Troyes, Re Artù e la Tavola Rotonda
La speda dell'incudine (pag. 238)
Uther Pendragon, re di Bretagna, avuto un figlio con la regina Igerne, lo consegnò al saggio mago Merlino perché lo crescesse; egli lo affidò a uno dei cavalieri più onesti del regno, di nome Antor. Costui fece battezzare il fanciullo con il nome di Artù e lo crebbe con ogni onore e bene, in compagnia del proprio figlio Keu.
Uther Pendragon morì […] due anni dopo la regina Igerne. Poiché non lasciava figli riconosciuti, i baroni pregarono Merlino di designare colui ch’essi avrebbero dovuto eleggere al fine che il regno fosse governato per il bene della Santa Chiesa e per la sicurezza del popolo. Ma egli disse soltanto di attendere il giorno della nascita di Nostro Signore, e fino ad allora di pregare Dio che li illuminasse.
La vigilia di Natale, tutti i baroni del regno di Logres andarono a Londra, e tra essi Antor, con Keu e Artù, i suoi due figli, di cui non sapeva quale preferire. Tutti assistettero alla messa di mezzanotte con grande pietà, poi alla messa del giorno. E mentre la folla usciva dalla chiesa, risuonarono grida di stupore: una grande pietra tagliata si trovava nel centro della piazza e sorreggeva un’incudine di ferro in cui era infissa una spada fino alla guardia.
Subito fu avvertito l’arcivescovo che arrivò con l’acqua benedetta. E mentre si chinava per aspergere la pietra, lesse ad alta voce queste parole che vi erano scritte in lettere d’oro:
Colui che estrarrà questa spada sarà eletto da Gesù Cristo.
Già gli uomini più nobili e più ricchi gareggiavano per chi sarebbe stato il primo a provare. Ma l’arcivescovo disse loro:«Signori, non siete affatto saggi quanto sarebbe necessario. Non sapete dunque che Nostro Signore non si cura né di ricchezza, né di nobiltà, né di fierezza? Riuscirà solo colui ch’Egli ha disegnato e, se non fosse ancora nato, la spada non potrebbe mai essere estratta prima ch’egli giunga».
Allora scelse personalmente duecentocinquanta valent’uomini che tentassero l’avventura per primi. Ma nessuno riuscì a muovere la spada. Dopo di essi, vi si provarono tutti quelli che vollero, ma invano, e venne il giorno di Capodanno.
Quel giorno, era usanza che si desse un grande torneo alle porte della città. Quando i cavalieri ebbero giostrato a sufficienza, fecero una mischia tale che tutta la cittadinanza accorse per vederli. Keu, il figlio di Antor, ch’era stato fatto novello cavaliere a Ognissanti, chiamò il giovane fratello e gli disse:«Va’ al nostro alloggio a prendermi la spada».
Artù era un adolescente di sedici anni grande e bello, molto amabile e servizievole: dette di sprone verso l’alloggio, ma non riuscì a trovare la spada del fratello né alcun’altra, ché la padrona della casa le aveva sistemate tutte in una camera ed era andata ad assistere alla mischia. Stava tornando, quando passando davanti alla chiesa pensò che non aveva ancora fatta la prova: subito s’avvicina alla pietra e, senza nemmeno smontare da cavallo, impugna il gladio meraviglioso, lo estrae senza alcuna fatica, e lo porta al fratello sotto un lembo del mantello, e gli dice:«Non sono riuscito a trovare la tua spada, ma ti ho portato quella dell’incudine».Keu la prese senza pronunziar parola, e si mise alla ricerca del padre.
«Signore» gli disse «sarò re: ecco la spada della pietra».
Ma Antor, ch’era vecchio e saggio, non gli credette e gli fece confessare la verità. Poi chiamo Artù e gli ordinò d’andare a rimettere il gladio dove l’aveva preso: il fanciullo riconficcò la lama nell’incudine con la stessa facilità con cui l’avrebbe immersa nell’argilla. Il che vedendo, il valent’uomo l’abbracciò:«Bel figliolo, s’io vi facessi re, che bene me ne deriverebbe?»
«Signore» rispose Artù «non vi sarebbe nulla ch’io possedessi di cui voi non sareste padrone, essendo mio padre».
«Bel signore, io sono il vostro padre adottivo, ma non colui che v’ha generato. Ho affidato mio figlio a una nutrice perché sua madre vi nutrisse col suo latte. E vi ho allevato con tutta la dolcezza che mi è stata possibile».
«Vi supplico» disse Artù «di non rinnegarmi come vostro figlio, ché non saprei dove andare. E se Dio vuole ch’io abbia l’onore d’essere re, voi non potrete chiedermi cosa che non l’otteniate».
«Bel signore, vi chiedo che, in ricompensa di quel che ho fatto per voi, Keu sia vostro siniscalco finché avrete vita, e che, qualunque cosa egli faccia, non possa perdere la sua carica. S’è folle, s’è fellone, vi direte che forse non lo sarebbe stato se fosse stato allattato dalla propria madre e non da un’estranea, e che forse egli è così a causa vostra».
E Artù giurò sui santi che avrebbe tenuto Keu con sé per sempre.
Antor aspettò i vespri, e quando tutti i baroni furono riuniti in chiesa, mandò a trovare l’arcivescovo e gli chiese di permettere che il figlio più giovane, che non era ancora cavaliere, facesse la prova.
E Artù sfilò senza fatica la spada e la porse all’arcivescovo che intonò a piena voce il Te Deum laudamus.
Intanto i baroni mormoravano, dicendo che non si poteva ammettere che un ragazzo di sì basso lignaggio divenisse loro signore. Del che l’arcivescovo molto s’adirò, dicendo che Dio conosceva meglio di loro stessi il valore di ciascuno; tuttavia ordinò a Artù di rinfilare la spada nell’incudine, poi disse a coloro che si mostravano scontenti di ricominciare la prova. E tutti tentarono una volta ancora, ma alcuno vi riuscì.
«Sono ben folli coloro che vanno contro la volontà di Nostro Signore!» esclamò il servitore di Dio.
«Signore» dissero i baroni «noi non contrastiamo la Sua volontà, ma è per noi meraviglia troppo grande che un uomo di sì basso lignaggio divenga così il nostro signore. Vi chiediamo di lasciare la spada nella pietra fino a Candelora».
L’arcivescovo lo concesse; ma, venuta Candelora, nessuno di essi poté svellere la spada. Il che vedendo, l’arcivescovo disse a Artù:«Andate, bel figliolo, e se Nostro Signore vuole che voi governiate questo popolo, porgetemi quel gladio».
Subito Artù [si mise] a tirar la spada senza maggior sforzo che se fosse stata conficcata in un pane di burro. […] La portò dritto all’altare e ve la posò sopra. Poi fu unto e consacrato. E quando la messa fu cantata, si vide, uscendo dalla chiesa, che la pietra meravigliosa era scomparsa.
La lotta contro i ribelli (pag. 241)
Artù divenne così re di Bretagna e, con l’aiuto dei suoi più fedeli uomini, piegò i baroni ribelli. Ogni giorno che passava, sempre più cavalieri giungevano alla corte per esser suoi vassalli, e in breve tempo furono molti ad accompagnarlo nelle sue imprese.
Numerose genti d’armi forestiere vennero alle pianure di Salisbery per difendere la Santa Chiesa: quelli di re Clamadieu, di re Elano, del duce delle Rocche, di re Marco di Cornovaglia, ch’ebbe per moglie Isotta la Bionda, quelli di Galeotto, il figlio della gigantessa, signore delle Isole Lontane, e molti altri. Vi si trovarono le genti dei re Ban, Bohor, Leodagan e dei principi della Piccola Bretagna, e persino quelli di re Lot d’Arcanie e dei baroni ribelli del regno di Logres. Tutti avevano come insegna la bandiera bianca a croce rossa; ma su quella d’Artù, portata da Keu il siniscalco, al di sotto della croce si vedeva un drago. Fu così che una grande armata cristiana si mise in marcia verso la città di Clarence assediata dai Sassoni miscredenti, più numerosi dei flutti del mare. Irta di lance, era simile a un bosco dove i frassini avessero per fiori punte d’acciaio.
L’armata tanto cavalcò tutta la notte che arrivò presso il campo dei Sassoni poco prima di giorno. C’era una bruma fitta e presto cominciò a cadere un pioggia minuta e copiosa, per cui i pagani dormivano ancor più profondamente. Furono risvegliati dai clamori dei cavalieri che caricavano attraverso il campo, rompendo le corde delle tende, abbattendone i pali, rovesciando i padiglioni e facendo un tal massacro che in poco tempo i cavalli si bagnarono di sangue fino ai pastorali. Le insegne erano sì inzuppate che le due parti non si riconoscevano che per le grida. Ma i Sassoni si radunarono al suono dei loro corni e delle loro buccine. Fu allora che Galvano uccise re Isoré e gli prese il cavallo, Gringalet, di grande bontà: ché poteva percorrere dieci leghe senza essere stremato, senza che un sol pelo della groppa o delle spalle gli si inzuppasse. Ma re Ban, re Bohor, re Nantre, il re dei Cento Cavalieri, il duca Escan di Cambenic, e re Artù […] e tutti i principi fecero meraviglie.
L’armata cristiana vittoriosa si occupò di raccogliere i morti e i feriti che giacevano sul campo come pecore sgozzate; poi, la notte, ben rinfrancata, si rimise in marcia. Quando fu molto vicina a Clarence, Merlino riunì a parlamentare i principi ribelli.
«Bei signori» disse loro «è venuto il giorno di perder tutto o vincer tutto. È necessario che voi preghiate Dio perché difenda il regno di Logres da onta e malvagità, ché, se Nostro Signore non ci consiglia, la terra di Bretagna sarà oggi distrutta. E vi dico che la sconfitta non potrà essere evitata se non fate pace con re Artù».
Furono molti i baroni cui tali parole non piacquero né tanto né poco, e non poteva essere altrimenti; eppure tutti andarono a rendere omaggio al re, l’uno dopo l’altro, e da lui ricevettero i loro feudi.
Il giorno si levava, radioso. Nell’erba non falciata i cavalli entravano fino al ventre; gli uccelli cantavano il mattutino tra gli arbusti e riempivano di letizia il cuore degli innamorati. Le insegne d’oro, d’argento e di seta sventolavano alla brezza leggera e il sole faceva fiammeggiare l’acciaio degli elmi e delle lance, e luccicare le immagini sugli scudi. Merlino marciava in testa all’esercito su un grande cavallo da caccia. Quando scorse i Sassoni avanzare incontro ai cristiani, gridò con tutta la propria forza:«Ora si vedrà chi sarà prode! Signori cavalieri, è venuta l’ora di mostrare le vostre prodezze!»
Subito i baroni allentarono il freno e dettero di sprone; e cominciò così la fiera e meravigliosa battaglia.
Il cozzo delle lance, il fragore degli scudi, il martellare delle mazze e delle spade si udì fino al mare. Presto l’aria fu rossa e offuscata dalla polvere, al punto che i cieli si oscurarono e il sole perse di splendore. Quando i cavalieri e i borghesi che difendevano la città di Clarence scorsero le insegne bianche dalla croce vermiglia pensarono che fossero soccorsi inviati loro da Nostro Signore: subito uscirono e anch’essi cominciarono a far meraviglie d’armi.
Intanto, a misura che s’avvicinava l’ora del mezzogiorno, la forza di Galvano s’accresceva. Fendeva i ranghi nemici, impetuoso e fragoroso come il tuono e, quando la sua spada calava per colpire, sembrava fosse il fulmine. I fratelli lo imitavano; ma soprattutto Galessin faceva meraviglie: intorno a lui i miscredenti cadevano come grano maturo sotto la falce; verso sera egli era insanguinato come fosse uscito da un fiume di sangue. I Sassoni erano più alti e meglio armati, ma i cristiani più agili, sì ch’alla fine i pagani cedettero. Tutti i loro re erano stati uccisi, salvo Rion, Oriens, Sorbare, Cornican, Murgalan di Trebeham e l’ammiraglio Napin. Incalzati da presso, fuggirono a tutta velocità dei loro cavalli verso il mare vicino; e, non senza che più della metà fosse annegata o uccisa, si imbarcarono sulle navi, tagliarono i cavi delle ancore, alzarono in fretta le vele, e andarono ove il vento li portò.
L’istituzione della Tavola Rotonda (pag. 242)
Finita dunque la battaglia, Artù fece bandire che avrebbe tenuto corte a Carduel, e lì si riunirono i cavalieri e le dame, abbigliati con le vesti più ricche, e con loro c’era anche la regina Ginevra, divenuta moglie del re. Dopo la messa cantata dall’arcivescovo, la corte si riunì nella sala del palazzo dove, imbandite le tavole, tutti presero posto secondo il loro rango per banchettare e udire i canti del menestrello.
Quando furono levate le tavole, Merlino si alzò e, dopo aver chiesto licenza al re, disse a voce sì alta che tutti l’intesero nella sala:«Signori. Sappiate che il Santissimo Graal, il vaso in cui Nostro Signore offrì per la prima volta il proprio corpo santo e dove Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue prezioso che sgorgò dalle piaghe di Gesù Cristo, è stato trasportato nella Bretagna Azzurra. Ma non verrà trovato, e le sue meraviglie non saranno svelate che dal miglior cavaliere del mondo. Ed è detto nel nome della Santissima Trinità che re Artù debba istituire la tavola che sarà la terza dopo quella della Cena e quella del Graal, e che a lui verrà gran bene e grandi meraviglie al regno. Questa tavola sarà rotonda per significare che tutti coloro che dovranno sedervisi non avranno alcuna preminenza, e alla destra di monsignore il re rimarrà sempre un seggio vuoto in memoria di Nostro Signore Gesù Cristo: nessuno vi si potrà sedere senza rischiare la sorte di Mosé che fu inghiottito dalla terra, salvo il miglior cavaliere del mondo che conquisterà il Santo Graal e ne conoscerà il significato e la verità».
[…] Non aveva ancora terminato queste parole che d’improvviso apparve in mezzo alla sala una tavola rotonda intorno alla quale stavano centocinquanta seggi di legno. E sulla maggior parte di essi si leggeva, in lettere d’oro: «Qui deve sedere il Tale»; ma, su quello che si trovava di fronte allo scranno del re, non era scritto alcun nome.
«Signori» disse Merlino «potete vedere i nomi di coloro che Dio ha scelto perché sedessero alla Tavola Rotonda e perché si ponessero alla ricerca del Graal quando sarà venuto il tempo».
Allora il re e i cavalieri designati dalla sorte andarono a prender posto, badando a lasciar libero il seggio periglioso. […] Appena si furono seduti, si sentirono pieni di dolcezza e d’amicizia.
«Bei signori» riprese Merlino «quando sentirete parlare d’un buon cavaliere, tanto farete finché lo condurrete a questa corte, dove, se dimostrerà di essere prode e fedele, lo riceverete tra voi: ché è detto che il numero dei compagni della Tavola Rotonda salirà a centocinquanta prima che sia intrapresa la ricerca del Santo Graal. Ma bisognerà sceglierli bene: un solo uomo malvagio disonorerebbe tutta la compagnia. E badate che alcuno di voi si segga sul seggio periglioso, ché ne avrebbe gran male».
Messer Galvano, dopo aver consultato i compagni, così parlò:«In nome dei cavalieri della Tavola Rotonda» disse «faccio voto che mai pulzella o dama verrà a questa corte per cercar soccorso che possa esser dato da un sol cavaliere, senza trovarlo. E mai uomo verrà a chiederci aiuto contro un cavaliere senza ottenerlo. E se avvenisse che uno di noi dovesse scomparire, volta a volta i compagni si metteranno alla sua ricerca; e tale ricerca durerà un anno e un giorno».
[…] E la regina disse a costui:«Bel nipote, col permesso del mio signore il re, voglio che quattro chierici restino qui, e non abbiano altra cosa da fare che mettere per iscritto tutte le vostre avventure e quelle dei vostri compagni, affinché dopo la nostra morte rimanga memoria delle vostre prodezze».
«Ve lo concedo» disse il re. «E io faccio voto che, tutte le volte che porterò la corona, non mi siederò a desinare prima che nella mia corte sia accaduta un’avventura».
- Le scene che costruiscono il racconto sono tre: riassumi ognuna di esse in una frase che ne sintetizzi l’avvenimento più significativo.
- Elenca i fatti essenziali che portano Artù a essere incoronato re di Bretagna.
- Rileggi la descrizione della battaglia: scopri e sottolinea le immagini, i paragoni, i particolari che rendono viva la scena.
- Rileggi l’ultima parte del racconto: qual è lo scopo della creazione della Tavola Rotonda? Cosa giurano i suoi cavalieri?
- Scegli almeno tre aggettivi per descrivere le principali caratteristiche di Artù e giustifica la tua scelta facendo riferimento agli episodi del racconto, come nell’esempio:
Artù è …, infatti…
- L’arcivescovo, di fronte ai baroni che tentano di estrarre la spada, risponde che «riuscirà solo colui ch’Egli ha designato».
In che senso questa frase riassume la vicenda di Artù? In un testo di una pagina di quaderno, racconta l’episodio della spada nell’incudine per mettere in evidenza la verità di quanto affermato dall’arcivescovo. Puoi aiutarti a narrare la vicenda aiutandoti con la risposta che hai dato alla domanda 2.
- Leggi la seguente poesia, scritta da un famoso poeta medievale, e confrontala con la parte centrale del testo appena letto. Perché un cavaliere attende con trepidazione la battaglia?
Trombe, tamburi, bandiere e pennoni,
E insegne, e cavalli bianchi e neri
Vedremo presto: il mondo sarà bello!
[…]
E ho grande gioia
Quando vedo nei campi schierati
Cavalieri e cavalli armati.
[…]
Io vi dico che niente ha per me tanto sapore
Mangiare, bere o dormire,
Quanto il momento in cui odo gridare “A loro!”
[…]
Infatti grande guerra rende generoso un avaro signore.
Bertrand de Born
- Scrivi il riassunto dell’intero racconto di Artù in circa trenta righe, mettendo in luce la divisione in tre parti della storia.
4.13 I ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA, I ROMANZI DELLA TAVOLA
ROTONDA, Chretien de Troyes, L’infanzia di Lancillotto (pag. 246)
Re Ban di Benoic morì per il tradimento di re Claudas; il figlio Lancillotto, appena nato, venne rapito dalle mani della madre, la regina Elena, da una misteriosa damigella, che lo trascinò con sé sotto le acque di un lago.
La damigella che aveva rapito [Lancillotto] era una fata. A quei tempi venivano chiamate fate tutte le donne che sapevano di incantamenti, e in Bretagna ve n’erano più che in ogni altra terra. Esse conoscevano le virtù delle parole, delle pietre e delle erbe, e grazie ad esse si mantenevano giovani, belle e ricche a loro piacere.[…] Se la Dama del Lago fu tenera con Lancillotto, non è nemmeno da chiedere: se l’avesse portato nel ventre non avrebbe potuto allevarlo con più dolcezza. E il lago in cui era sembrato si fosse gettata con lui non era che un incantesimo che Merlino un tempo aveva fatto per lei: nel luogo in cui l’acqua sembrava proprio esser più profonda, v’erano belle e ricche dimore, a fianco delle quali scorreva un fiume molto pescoso; ma l’apparenza d’un lago copriva tutte queste cose.
La Dama non era sola in quei luoghi: aveva con sé cavalieri, dame e damigelle; ed ella diede a Lancillotto una buona nutrice. Ma nessuno conosceva il nome del bambino: gli uni lo chiamavano Bel Trovato, gli altri Figlio di Re; lui credeva che la Dama del Lago fosse sua madre. E crebbe e divenne un fanciullo tanto bello che a tre anni pareva ne avesse cinque.
A quell’età, ebbe un maestro che gli insegnò e gli mostrò come comportarsi da gentiluomo. Appena fu possibile, gli furono donati un piccolo arco e delle frecce ch’egli scoccava sugli uccelletti; poi, quando fu più grande, gli furono date armi più forti ed egli mirò a lepri e pernici. Ebbe un cavallo appena poté cavalcare, e con esso passeggiava nei dintorni del lago, sempre ben accompagnato da valletti e da gentiluomini, e sembrava il più nobile di tutti loro: infatti lo era. Infine apprese a giocare a scacchi, a tavole e a tutti i giochi con una notevole facilità, tanto era dotato di ingegno: adolescente, nessuno era in grado di vincerlo […].
Era di carnagione bruno chiaro: sul suo viso, il colore vermiglio si sposava piacevolmente con il bianco e il bruno, e tutti e tre si temperavano l’un l’altro. Aveva la bocca piccola, le labbra rosse e ben disegnate, i denti bianchi, minuti e fitti. Il mento era ben fatto e con una piccola fossetta; il naso leggermente aquilino; gli occhi azzurri, ma mutevoli: ridenti e pieni di gioia quando era contento, simili a carboni ardenti, quand’era adirato: allora gli zigomi si macchiavano di gocce di sangue, egli increspava il naso, serrava i denti fino a farli digrignare e il suo fiato si sarebbe detto vermiglio, poi la voce risuonava come il richiamo di una tromba, infine faceva a pezzi con le mani e con i denti tutto ciò che aveva intorno; altrettanto in fretta dimenticava tutto, salvo il motivo della propria collera, e ne diede prova in più d’una occasione.
Aveva la fronte alta, le sopracciglia sottili e folte, e i morbidi capelli rimasero biondi e splendenti finché fu ragazzo: più tardi, si scurirono e divennero color cenere, ma restarono ondulati e lucenti. Il suo collo, non troppo gracile né troppo lungo né troppo corto, non avrebbe deturpato la dama più bella. Le spalle erano larghe ed alte come si conviene, e le braccia lunghe, diritte, ben fornite di ossa, di nervi e di muscoli. Se le dita fossero state un po’ più minute, le sue mani sarebbero state bene a una donna. Quanto alle reni e alle anche, quale cavaliere le ebbe meglio formate? Le cosce e le gambe erano diritte, e i piedi ben arcuati, tali che nessuno ebbe mai migliore equilibrio. Solo il petto era forse un po’ troppo ampio e profondo […]; ma la regina Ginevra, più tardi, usava dire che Nostro Signore glielo aveva formato a quel modo perché fosse della misura del suo cuore che in un altro petto sarebbe rimasto soffocato […].
Quando voleva, cantava meravigliosamente, ma non avveniva sovente, ché nessuno mostrava meno spesso di lui gioia senza motivo. Del resto, se aveva qualche cagione di giubilo, alcuno poteva esser più grazioso e giocondo; ed egli a volte diceva che, quando era nella più gaia condizione di spirito, nulla di quel che il suo cuore osava sognare il suo corpo non avrebbe potuto portare a buon fine, tanto aveva fiducia che la gioia gli facesse superare anche i compiti più ardui. Sentendolo parlare con tanta fierezza, molti lo avrebbero accusato di tracotanza e di vanteria; ma no: quel ch’egli diceva, lo diceva per la grande sicurezza che gli derivava da colei che, per l’appunto, gli donava ogni felicità.
Tale fu Lancillotto, e se il suo corpo era ben fatto, il suo cuore non lo era meno. Ché era il ragazzo più dolce e più mite; ma, all’occasione, era capace di superare un fellone in fellonia. Era d’ineguagliabile generosità: dava tanto volentieri quanto riceveva. Onorava i gentiluomini, pure non fece mai del male a nessuno senza un buon motivo. Del resto, quando si corrucciava, non era cosa facile calmarlo. Ed era di sentimenti sì limpidi e retti che, passata l’età di dieci anni, il suo maestro non sarebbe stato capace di dissuaderlo dal fare cosa ch’egli giudicasse buona e ragionevole.
Un giorno, cacciando un capriolo, Lancillotto e il maestro distanziarono i compagni montati meno bene. Poi il cavallo del maestro inciampò e cadde con il cavaliere senza che il fanciullo, trascinato nell’inseguimento della preda, se ne accorgesse nemmeno. Alla fine, Lancillotto, uccise la bestia con una freccia. Scende, appende il capriolo in groppa e prende il cane di traverso sulla sella. Ora, mentre se ne tornava verso i compagni preoccupati per lui, incontrò un uomo a piedi che portava per la briglia il cavallo stanco e sfinito, un bel valletto di primo pelo coperto con una modesta cotta, gli speroni arrossati dal sangue del ronzino spossato. Vedendo il fanciullo, il valletto abbassò il capo, come per vergogna; ma Lancillotto gli chiese chi fosse e dove andasse.
«Bel signore» disse il valletto «che Dio vi dia onore! Sono piuttosto povero, e lo sarò ancora di più se Nostro Signore non mi protegge altrimenti di come ha fatto finora. Sono gentiluomo di padre e di madre, e ne soffro di più, ché, se fossi villano, sarei abituato ai tormenti e il mio cuore sopporterebbe più facilmente le sue pene».
«Come» disse Lancillotto «siete gentiluomo e piangete per una cattiva sorte! Salvo che per la perdita d’un amico e per un’onta incancellabile, alcun nobile cuore si deve commuovere, ché a tutto vi può essere riparo».
Meravigliato di sentire un fanciullo sì giovane pronunciare parole tanto nobili, il valletto rispose:«Io non piango, bel signore, per la perdita d’un amico o di una terra. Ma devo recarmi alla corte di re Claudas a causa di un traditore che ha ucciso nel letto un mio parente per averne la moglie. Ieri sera, mi ha fatto assalire nella foresta: il mio cavallo ne rimase ferito sotto di me; eppure è riuscito a portarmi quanto è bastato perché potessi scappare. Ma come potrei non essere addolorato, dal momento che mi sarà impossibile presentarmi il giorno stabilito nella casa di re Claudas per sostenere il mio diritto, e dovrò quindi tornarmene disonorato?»
«Ditemi: se aveste un buon cavallo, arrivereste ancora in tempo?»
«Sì, signore, certo, anche se dovessi fare a piedi un terzo della strada».
«In nome di Dio, voi non sarete disonorato perché non avete un cavallo finché io ne avrò uno, né voi né alcun altro gentiluomo!»
Così dicendo, Lancillotto smonta, consegna la cavalcatura al valletto, mette il cane al laccio e, sistemata la preda sul ronzino ferito, si allontana spingendolo davanti a sé.
Non aveva camminato molto quando s’imbatté in un valvassore montato su un palafreno che, un bastone in mano, teneva al laccio un bracco e due levrieri. L’uomo era attempato: appena il fanciullo lo vide, lo salutò.
«Che Iddio vi sia misericordioso, figlio mio! Di dove siete?» chiese il valvassore.
«Signore, dell’altro paese».
«Chiunque voi siate, siete bello e ben educato. E donde venite?»
«Signore, dalla caccia, come vedete. Se vi degnaste di prendere una parte della mia cacciagione, essa sarebbe ben riposta».
«Mille grazie, dolce e bell’amico, non rifiuto certo, ché avete fatto la vostra offerta di buon cuore e io ho molto bisogno di cacciagione. Oggi ho maritato mia figlia ed ero andato a caccia per procurarmi di che rallegrare quelli che son venuti alle nozze. Ma non ho ucciso nulla».
Il valvassore smontò e chiese a Lancillotto quale parte del capriolo potesse prendere.
«Signore» rispose il fanciullo «siete cavaliere?»
«Sì».
«Allora, prendete tutto. La mia cacciagione non potrebbe essere meglio usata che alle nozze della figlia d’un cavaliere».
Il valvassore mise il capriolo in groppa e invitò il fanciullo a desinare e a essere suo ospite. Ma Lancillotto rispose che i suoi compagni non erano lontani. E il valvassore lo lasciò dopo averlo raccomandato a Dio.
Allontanandosi, non poté impedirsi di domandarsi chi fosse quel bel donzello la cui somiglianza con il re di Benoic l’aveva colpito. Non resistendo più, tornò al galoppo sui propri passi e non fece alcuna fatica a raggiungere Lancillotto che andava a piedi.
«Bello e dolce fanciullo, non potete dirmi chi siete? Somigliate molto a un mio signore, il più gran valent’uomo che mai vi sia stato».
«E chi era questo valent’uomo cui somiglio?»
«Re Ban di Benoic. Tutto questo paese era suo, e ne fu spogliato a torto da re Claudas della Terra Deserta. Suo figlio è scomparso. Se siete voi, per l’amor di Dio fatemelo sapere! Veglierò su di voi e vi difenderò più che me stesso».«Figlio di re, non credo di esserlo» rispose Lancillotto «anche se a volte mi chiamano così».
«Amico, chiunque siate, discendete da un buon lignaggio. Ecco qui due dei migliori levrieri che ci siano: prendetene uno, e che Dio vi dia benessere e giudizio!»
Il fanciullo, felice, accettò di buon grado l’offerta.
«Datemi il migliore!» chiese.
E tirando il cane per la catena, si allontanò.
Poco dopo, trovò il maestro e tre compagni che lo cercavano e che si stupirono molto di vederlo tornare a piedi, spingendo davanti a sé un magro ronzino, con due cani al laccio, l’arco al collo, la faretra alla cintura.
«Cosa ne avete fatto del cavallo?» chiese il maestro.
«L’ho perduto».
«E questo, dove l’avete preso?»
«Mi è stato regalato».
«Per la fede che dovete alla vostra signora, dite la verità!»
Il fanciullo, che non avrebbe mai mentito alla leggera, raccontò quanto gli era accaduto.
«Come?» esclamò il maestro «avete dato il vostro cavallo senza il mio permesso, e anche la cacciagione della vostra signora?»
«Maestro» disse Lancillotto «non vi adirate. Questo levriero vale due ronzini come quello che avevo».
«Per la Santa Croce, ve lo ricorderete!»
E, così dicendo, il maestro assesta al fanciullo uno schiaffo tale da gettarlo a terra. Lancillotto non piange né grida, ma ripete che per lui il levriero vale più di due ronzini. Il maestro incollerito batte duramente il cane con il bastone e l’animale, ch’è giovane, si mette a guaire.
Furibondo, Lancillotto, molla i due lacci e, strappatosi l’arco dal collo, si getta sul maestro. Questi, che lo vede venire, tenta di afferrarlo. Ma il fanciullo, agile e leggero com’è, evita la presa e colpisce il maestro con il filo dell’arco sulla testa con tanta violenza da spaccargli la pelle e farlo cadere stordito. Poi, pazzo di collera alla vista dell’arco rotto, si getta su di lui e lo colpisce di nuovo, finché dell’arco non resta più di assestare un sol colpo. Nel frattempo i tre compagni si sforzavano di trattenerlo, ma egli prese le frecce dalla faretra e si mise a scagliarle cercando di ucciderli, tanto che quelli fuggirono per il bosco.
Allora il fanciullo montò su uno dei loro cavalli e, portando con sé i due cani, uno sull’arcione, l’altro sulla groppa, se ne andò per la foresta. E d’improvviso, mentre traversava una valle, vide passare un branco di cerve. D’istinto, cercò l’arco al collo e, ricordandosi come l’avesse rotto e perduto, montò in collera: “Colui che m’ha impedito di prendere una di quelle cerve me la pagherà cara” pensava. “Con il miglior levriero e il segugio migliore, non avrei certo potuto sbagliare il colpo.” Tornò al lago, entrò nel cortile e si recò dalla Dama per mostrarle il suo bel levriero. Ma il maestro, tutto sanguinante, aveva già sporto le proprie lagnanze.
«Figlio di re» disse la Dama fingendo di essere molto adirata «come mai mi avete fatto un simile oltraggio, colpendo e ferendo colui che vi avevo dato perché vi istruisse?»
«Signora, non era buon maestro quando mi ha battuto perché avevo agito bene. I suoi colpi mi importavano poco. Ma egli ha colpito il mio levriero, ch’è tra i migliori del mondo, e con tanta violenza che per poco non l’uccideva davanti ai miei occhi, solo perché sapeva che lo amo. E inoltre m’ha causato altra noia, ché m’ha impedito di uccidere una bella cerva. E sappiate che ovunque io lo incontri cercherò di togliergli la vita, salvo che qui».
La Dama fu ben contenta di sentirlo parlare con tanta fierezza; ma, continuando a fingere d’essere irata, riprese:«Come avete osato donare ciò che mi appartiene?»
«Signora, finché sarò ai vostri ordini e governato da simile maestro, sarò costretto a tener per me un bel po’ di cose. Quando non vorrò più restare, me ne andrò! Ma, prima che me ne vada, voglio dirvi che il cuore d’un uomo non può conseguire l’onore se resta troppo tempo sotto tutela, ché troppo spesso è costretto a tremare. Non voglio più maestro; dico maestro, non signore o dama. Infelice il figlio di re che non può donare liberamente i propri beni!»«Pensate forse di essere figlio di re, perché io a volte vi chiamo così? Non lo siete».
«Signora» fece il fanciullo sospirando «questo mi spiace, ché il mio cuore ardirebbe esserlo».
Allora la Dama lo prese per mano e, portatolo un po’ in disparte, lo baciò sulla bocca e sugli occhi con tanta tenerezza che a vederla nessuno avrebbe potuto credere ch’egli non fosse suo figlio.
«Figlio caro, non siate triste» gli disse «voglio che in futuro siate libero di donare tutto quello che vorrete. E da oggi in poi sarete signore e maestro di voi stesso. Chiunque sia vostro padre, avete mostrato d’avere il cuore d’un re».
«Non so se sono gentiluomo di nascita. Se da un uomo e da una donna è nata tutta la razza umana, non vedo che una sola nobiltà: quella che si conquista con la prodezza. E se il cuore fa il gentiluomo, crederei d’essere della più nobile nascita».
«Bel figliolo, si vedrà. Ma, siate certo, solo la mancanza di coraggio potrebbe farvi perdere la nobiltà».
«Siate benedetta da Dio, signora, per avermelo detto, ché non mi auguravo null’altro che d’esser gentiluomo».
Fino a diciotto anni, Lancillotto rimase sotto la protezione della Dama del Lago. Ed ella ben avrebbe voluto trattenerlo ancora, tanto l’amava.
Un giorno egli uccise a caccia il cervo più grande che avesse mai visto: subito lo inviò alla Dama per mezzo di due valletti; verso sera, inforcò il cavallo da caccia per avviarsi a tornare. Aveva l’aspetto d’un vero uomo dei boschi, vestito com’era d’una corta cotta verde, coronato di foglie e con la faretra alla cintura, ché mai se ne separava. Al vederlo sì bello, la Dama sentì l’acqua del cuore salirle agli occhi. E quand’egli entrò nella sala, nascose il viso tra le mani e, invece di abbracciarlo e di baciarlo come sempre faceva, fuggì nella camera grande. Lancillotto la seguì: la trovò stesa su un letto, a piangere.
«Ah! signora, che avete?» le chiese. «Se vi è stato fatto torto, raccontatemelo, ché non sopporterò che alcuno vi dispiaccia, finché sarò in vita».
Ma la Dama singhiozzava sì forte da non poter parlare.
«Figlio di re, allontanatevi» riuscì a dire «oppure vedrete che il mio cuore mi lascerà».
«Allora parto, se la mia presenza vi addolora tanto».
Detto ciò, esce, prende l’arco, se lo appende al collo, cinge la faretra, sella il cavallo, e già lo portava nel cortile, quando colei che l’amava più di ogni cosa accorse, asciugandosi il viso e gli occhi rossi e gonfi, e afferrò il cavallo per la briglia:«Vassallo» ella gridò «dove volete andare?»
«Signora, in un luogo in cui possa trovare consolazione».
«Dove? Ditelo, per la fede che mi dovete!»
«Alla corte di re Artù, a servire un valent’uomo finch’egli mi faccia cavaliere».
«Ah! bel figlio di re, tanto desiderate essere cavaliere?»
«Certo, signora! È la cosa cui aspiro di più al mondo».
«Se sapeste quali gravosi doveri impone la cavalleria, non ardireste augurarvelo».
«E perché, signora? Sono dunque superiori al coraggio e alla forza d’un uomo?»
«Sì, qualche volta: Nostro Signore Iddio ha fatto gli uni più valenti degli altri, più prodi e più cortesi».
«Signora, sarebbe ben timido colui che non osasse ricevere la cavalleria. Ché tutti, se non possono avere le virtù del corpo, possono almeno possedere quelle del cuore. Le prime, come la statura, la forza, la beltà, l’uomo le riceve nascendo. Ma la cortesia, la saggezza, l’indulgenza, la lealtà, la prodezza, la generosità, l’arditezza, solo la pigrizia può impedire di possederle, ché esse dipendono dalla volontà. E spesso ho sentito dire ch’è il cuore che fa il valent’uomo».
Allora la Dama del Lago prese Lancillotto per la mano e lo condusse nella propria camera; e là, dopo averlo fatto sedere, gli disse:«I primi cavalieri non lo furono a causa della loro nascita, ché tutti discendiamo dallo stesso padre e dalla stessa madre. Ma quando Invidia e Cupidigia cominciarono a crescere nel mondo, allora i deboli istituirono al di sopra di sé dei difensori che mantenessero il diritto e li proteggessero.
Per questo ufficio vennero scelti i grandi, i forti, i belli, i leali, gli arditi, i prodi. E alcuno, a quei tempi, avrebbe osato montare a cavallo prima d’aver ricevuto la cavalleria. Ma essa non era conferita per il piacere. Si chiedeva ai cavalieri d’esser indulgenti salvo che coi felloni, pietosi coi bisognosi, pronti a soccorrere i sofferenti e a confondere i ladri e gli assassini, buoni giudici senza amore e senza odio. E dovevano proteggere la Santa Chiesa e colui che porge la guancia sinistra a chi l’ha colpito alla destra.
Ché le armi non sono state date loro senza motivo. Lo scudo significa ch’egli deve interporsi tra la Santa Chiesa e chi l’assale, e ricevere per essa i colpi come un figlio per la madre. Allo stesso modo in cui il giaco lo veste e lo protegge da ogni parte, così egli deve coprire e circondare la Santa Chiesa di modo che i malvagi non la possano raggiungere. L’elmo è come la garitta da cui si sorvegliano i malfattori e i ladri della Santa Chiesa. La lancia, lunga in modo da ferire prima che colui che la porta possa essere raggiunto, significa ch’egli deve impedire ai malintenzionati di avvicinare la Santa Chiesa. E se la spada, la più nobile delle armi, è a doppio taglio, è perché essa con un taglio colpisce i nemici della fede, e con l’altro i ladri e gli assassini; ma la punta significa obbedienza, ché tutte le genti devono obbedire al cavaliere; e nulla trafigge il cuore come obbedire a dispetto del proprio cuore. Infine, il cavallo è il popolo, che deve sostenere il cavaliere e sopperire ai suoi bisogni, ed essere sotto di lui, e ch’egli deve menare bene secondo il proprio intendimento.
Egli deve avere due cuori: uno duro come un magnete per gli sleali e i felloni, l’altro morbido e plasmabile come cera calda per i buoni e gli indulgenti. Tali sono i doveri cui ci si impegna verso Nostro Signore ricevendo la cavalleria, e per un valletto sarebbe meglio restare scudiero per la vita, che vedersi disonorato sulla terra e perduto di fronte a Dio».
«Signora» disse Lancillotto «se trovo qualcuno che acconsenta a farmi cavaliere, non avrò timore d’esserlo, ché forse Dio vorrà farmi dono delle qualità necessarie, ed io vi metterò tutto il mio cuore, e il mio corpo, e la mia pena, e la mia fatica».
«In nome di Dio» disse la Dama sospirando «il vostro desiderio sarà dunque presto esaudito. Ed è perché lo sapevo che piansi quando vi vidi. Sarete armato dal miglior valent’uomo che vi sia».
Da tempo ella aveva preparato tutte le armi necessarie al fanciullo: un giaco bianco, leggero e forte, un elmo argentato e uno scudo color della neve, a borchie d’argento. La spada, messa alla prova in molte occasioni, era grande, tagliente e leggera a meraviglia. E la lancia corta, grossa, robusta, dal ferro ben appuntito, il destriero alto, forte e vivace, l’abito di Lancillotto, il mantello foderato d’ermellino, tutto era bianco, e anche la scorta, abbigliata di bianco, montata su cavalli bianchi. E in tale equipaggio, accompagnati da Lionello, Bohor e Lambegue, Lancillotto e la Dama del Lago si misero in cammino, il martedì precedente la festa di San Giovanni. Ma il racconto narrerà più avanti quel che avvenne alla corte di re Artù, e come Lancillotto vi fu fatto cavaliere dalla regina Ginevra, e com’egli si comportò.
- Individua il numero delle scene che costruiscono la narrazione e scegli per ognuna di esse un titolo che ne sintetizzi il contenuto.
- Rileggi la prima parte del racconto e sottolinea le caratteristiche fisiche e morali attribuite al personaggio di Lancillotto. Ritrova poi nella narrazione successiva gli episodi in cui queste si manifestano.
- Ora concentra la tua attenzione sulla parte centrale della storia.
Che incontri fa Lancillotto? Quali azioni compie?
- Ritrova nel testo la frase: «Amico, chiunque siate, discendete da un buon lignaggio».
Perché le azioni di Lancillotto inizialmente vengono giudicate positivamente, tanto che il valvassore riconosce la sua nobiltà?
Perché invece le stesse azioni vengono giudicate in maniera differente dal maestro?
- Adesso rileggi la parte conclusiva del racconto, e poni particolare attenzione al rapporto tra Lancillotto e la Dama del Lago. Sottolinea innanzitutto le parole che ti fanno capire i sentimenti che prova la Dama per il ragazzo.
- Ora ritrova questo passaggio del testo:«Figlio di re» disse la Dama fingendo di essere molto adirata «Come mai mi avete fatto un simile oltraggio, colpendo e ferendo colui che vi avevo dato perché vi istruisse?»
La Dama, al ritorno di Lancillotto, finge di essere adirata con lui.
Perché dovrebbe essere arrabbiata con lui? Perché invece non lo è affatto?
Perché, dunque, finge?
- Quando la Dama vede Lancillotto pronto per partire, rimane turbata. Sottolinea la bella espressione che lo scrittore usa per descrivere il suo stato d’animo e rifletti: perché la vista di Lancillotto commuove la Dama?
Cosa la spinge a piangere?
- Elenca le armi che vengono consegnate a Lancillotto, specificando la loro funzione, secondo quanto affermato dalla Dama del Lago.
- La Dama del Lago afferma che «nulla trafigge il cuore come obbedire a dispetto del proprio cuore»: facendo precisi riferimenti al racconto, spiega in un testo di almeno 20 righe quali azioni e quali scelte dei personaggi rispecchiano la verità di questa affermazione.
Il testo dovrà essere così strutturato:una breve introduzione che spieghi il contenuto della citazione riportatala narrazione di uno o più episodi che esprimano quanto affermato dalla citazioneuna conclusione che sintetizzi quanto hai scritto.
- I personaggi del testo, in diverse occasioni, dialogano sul concetto di nobiltà: dopo aver sottolineato i passaggi in cui si fa riferimento a ciò, spiega cosa, nel mondo della cavalleria, rende nobile un uomo.
Il testo, la cui lunghezza dovrà essere di circa una facciata, dovrà essere così strutturato:
un’introduzione in cui si definisca il concetto usuale di nobiltà (trova sul vocabolario il primo significato assegnato a tale parola)
la narrazione di episodi del testo che mostrino la nobiltà dei suoi personaggi
una conclusione in cui si affermi cosa si intende per nobiltà in questo racconto.
- Dopo aver letto e lavorato sul testo, assegna un titolo a questo racconto per esprimerne il significato essenziale; scrivi quindi un riassunto di circa una pagina di quaderno che metta in luce quanto espresso nel titolo da te scelto. Prima di scrivere il testo, individua i fatti essenziali, costruisci un sommario e per ogni scena scrivi una frase: ogni frase costituirà il contenuto sintetico di un paragrafo del tuo riassunto.
4.14 I ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA, I
ROMANZI DELLA TAVOLA ROTONDA, Chretien de Troyes, Perceval il gallese (pag. 256)
Sappiate che, nella terra di Galles, c’era una volta un re di grande merito, valent’uomo a meraviglia e di nobilissima schiatta, figlio di Pellehan, il Re Pescatore, e fratello cadetto di re Pelles, in breve sì ricco d’amici, di castelli, di fortezze, di prati, di boschi e di fiumi, che quasi non aveva eguali in tutta la Grande Bretagna. Ora, i suoi undici figli maggiori furono uccisi nelle giostre e la moglie lo supplicò di rinunciare per sempre ai tornei. Ma egli le rispose, alzando le spalle:«Maledetto il cavaliere che domanda consiglio alle dame quando si tratta di torneare! Andate a riposarvi all’ombra delle vostre stanze dipinte e dorate; pensate a bere e a mangiare, a tinger la seta, a far tappezzerie: è il vostro mestiere. Il mio è di colpire con la spada di acciaio».
E se ne andò a nuove giostre, dove non mancò di farsi ammazzare come i suoi undici figli. Della sua morte, la moglie ebbe tale dolore che nessun uomo, per quanto duro fosse il suo cuore, avrebbe potuto vederla senza piangere. Ah! che pena! Ella fece dire più di cento messe in chiesa e promise a sé stessa che l’ultimo suo nato, che aveva nome Perceval non sarebbe mai andato a un torneo, e persino che mai avrebbe inteso parlare della cavalleria.
Annunciò ai propri vassalli che voleva condurre il fanciullo in pellegrinaggio a San Brandiano di Scozia e fece loro giurare obbedienza al siniscalco, al quale affidò la terra in balia. Poi prese il proprio tesoro e quanto poté dei suoi averi; fece caricare dieci carrette di grano, frumento, avena e denari, e s’allontanò col figlio, portando via buoi, cavalli, vacche, montoni, agnelli, accompagnata da una dozzina di servizievoli villani che le erano devoti.
Tanto andò con questo equipaggio che arrivò nella Guasta Foresta, la più deserta del mondo, dove camminò per ben due settimane senza vedere né uomo né casa. Un giorno, infine, sbucò con le sue genti in una valle bella e piacevole, bagnata da un corso d’acqua abbastanza rapido da far andare un mulino, e decise di fermarsi. I dodici villani lavorarono sì bene che in quindici giorni costruirono una casa chiusa da una buona palizzata; poi lavorarono la terra, e Perceval fu allevato in questa valle finché ebbe quindici anni.
A quest’età, egli sapeva montare a cavallo molto bene e scagliare giavellotti. Aveva i capelli neri come la mora di rovo, ma il collo bianco come rosa di macchia; gli occhi glauchi, la bocca ridente, le gambe forti e lunghe atte a ben sedere su un destriero; largo di spalle, stretto di vita, era, benché bruno, uno dei valletti più belli che si siano mai visti. Ogni mattina, vestito alla moda gallese con camicia e brache di canapa fatte d’un sol pezzo, coperto dalla cotta di pelle di cervo, inforcava il cavallino da caccia e se ne andava nella foresta con i suoi tre giavellotti in mano.
«Bel figliolo» gli disse un giorno la madre «cacciate quanto vi piacerà caprioli e cervi; ma c’è una cosa che vi proibisco: se nella foresta incontrerete delle persone che cavalcano con fracasso, e sembrano tutte coperte di ferro, non restate accanto ad esse, ché sono diavoli che vi divorerebbero presto. Allontanatevi più in fretta che potrete, fatevi il segno della croce e dite il vostro Credo: in tal modo, non rischierete nulla».
«Signora, così farò» rispose Perceval.
Era la dolce stagione in cui gli alberi fioriscono e i prati si coprono di verde, gli uccelli cantano dolcemente nella loro lingua e ogni cosa s’infiamma di gioia. Un mattino, mentre Perceval entrava nella foresta, sentì che il suo cuore tanto si rallegrava per il sole e il canto degli uccellini, che non sapeva più che fare: tolse la briglia al cavallo e lo lasciò a pascolare a volontà, poi, per divertirsi, si mise a lanciare i giavellotti, ora in alto, ora in basso, uno in avanti e l’altro indietro.
Ora, mentre così si dilettava, ecco giungere cinque uomini vestiti di ferro che cavalcavano con gran rumore, ché le loro armi urtavano i rami, i giachi fremevano, le lance colpivano gli scudi. Il valletto, che sentiva quel fracasso senza veder nulla, pensò dapprima a quello che la madre gli aveva detto dei diavoli che percorrono questo mondo, usi a fare un rumore furioso e movimenti tempestosi. “Ella m’ha insegnato che in un simile caso bisogna munirsi del segno della croce” si disse. “Così farò, e reciterò il mio Credo; ma poi lancerò un giavellotto contro il più forte di quei demoni e lo ferirò sì rudemente che gli altri non oseranno avvicinarsi”.
Pure, quando i cinque cavalieri furono allo scoperto e gli apparvero, lo scudo al collo e la lancia in mano, i giachi bianchi, verdi o vermigli lucenti al sole, tutti risplendenti d’oro, d’azzurro e d’argento, egli esclamò meravigliato:«In verità, non sono diavoli, ma angeli! E mia madre non ha mentito quando mi ha detto che gli angeli sono le creature più belle dopo Dio. Il più rilucente e splendente tra loro deve essere il Nostro Salvatore in persona. E io l’adorerò, e onorerò i suoi servitori».
Subito si prosterna e comincia a recitare le preghiere e le orazioni che la madre gli aveva insegnato, sì che il capo dei cavalieri, vedendolo, dice ai compagni di fermarsi, per non spaventarlo a morte, e viene avanti e gli si accosta da solo.
«Non aver paura, valletto».
«Non ho paura, in nome del Salvatore! Ma non siete Dio?»
«No, in fede mia! Non sono che un cavaliere. Ma dimmi, hai visto passare di qui cinque uomini e tre pulzelle?»
«Cavaliere? Non ho mai inteso parlare di cavalieri. Ma voi siete più bello di Dio, luminoso in tal guisa che… Cosa tenete in mano?»
«È una lancia, valletto».
«Volete dire che lanciate quella cosa come io faccio con i miei giavellotti?»
«No davvero! Colpisce da vicino coloro contro cui si combatte».
«I miei giavellotti valgon dunque di più, che raggiungono bestie e uccelli da tanto lontano quanto un tiro di freccia».
«Non so che farmene di tutto ciò. Rispondi alla mia domanda».
Ma il giovanetto toccava il bordo dello scudo.
«A cosa vi serve questo?»
«Ecco meraviglia! Bello e dolce amico, pensavo di imparare qualcosa da te, ma sono io che t’insegno. Ciò che porto si chiama scudo: quando mi vogliono ferire, è lo scudo che mi protegge».
Intanto i quattro cavalieri, vedendo che il loro signore parlava tanto a lungo, s’erano avvicinati al passo.
«Signore» dissero «i Gallesi sono per natura più sciocchi delle bestie. È perder tempo in fole e baloccarsi inutilmente, interrogare costui».
Ma Perceval tirava il cavaliere per il lembo del giaco.
«Cos’è questo, bel signore?» riprese.
«Valletto, è il mio giaco d’acciaio che è pesante come il ferro. Grazie ad esso, se tu mi gettassi uno dei tuoi giavellotti, non potrebbe farmi alcun male».
«In questo caso, che Dio preservi i cervi e le cerve dall’aver dei giachi! Ma siete nato così?»
«No davvero, valletto. Sei troppo sciocco».
«E chi vi donò dunque questi begli abiti?»
«Non sono passati quindici giorni da che ricevetti questo equipaggiamento da re Artù, quando mi rivestì dell’ordine della cavalleria, che è il più nobile e trionfante che Dio abbia creato. Ma rivelami, se lo sai, cos’è accaduto ai cinque uomini e alle tre pulzelle che inseguo. Procedono al passo, o stanno fuggendo?»
«Signore, al di là dei grandi boschi che circondano questa collina c’è una valle dove i mezzadri e i villani di mia madre seminano e erpicano. Essi vi diranno se coloro che inseguite sono passati di là».
A tali parole, i cavalieri diedero di sprone e se ne andarono al galoppo, lasciando Perceval tutto sognante.
Perceval se ne ritornò lentamente al maniero dove la madre, che aveva il cuore cupo e dolente a causa del suo ritardo, lo strinse a sé chiamandolo «bel figliolo, bel figliolo» più di cento volte.
«Signora» egli disse «oggi ho provato una grande gioia. Non m’avete spesso detto che gli angeli di Nostro Signore Iddio sono sì belli che mai la natura fece creature più attraenti? Io ne ho incontrati nella Guasta Foresta. M’han detto che il loro nome è cavalieri e che l’ordine della cavalleria è il più nobile che Dio abbia istituito in questo mondo».
«Ahimè» disse la madre piangendo «sono maledetta! Ecco dunque ch’è avvenuto quanto temevo di più! Bello, dolce figliolo, quegli angeli cattivi che avete incontrato uccidono tutto quanto possono toccare. Dio vi guardi dalla loro cavalleria!»
Ed ella gli narrò cos’era accaduto ai fratelli e al padre, come ha già detto il racconto. Ma Perceval le rispose solo:«Madre, vi prego di darmi da mangiare, ché ho gran fame. Capisco ben poco di quanto mi spiegate. Ma volentieri andrò da colui che fa cavaliere».
Allora la dama comprese che non avrebbe potuto trattenerlo: se ne fu dolente, è inutile dirlo! Perceval, infatti, pensava notte e giorno agli angeli ch’aveva incontrato, e intanto deperiva in tal guisa che, poco prima della Pentecoste, la madre gli disse, sospirando:«Bel figliolo, poiché lo desiderate tanto, devo dunque lasciarvi partire! Andate alla corte di re Artù e domandategli di farvi cavaliere: non ve lo rifiuterà certo quando conoscerà il vostro lignaggio. Ahimè! Come vi aiuterete con le armi che vi donerà, senza aver mai appreso a servirvene? Ricordate almeno gli insegnamenti che vi darò. Innanzi tutto, quando troverete dama o pulzella che abbia bisogno d’aiuto e che vi richieda d’accordarle il vostro, fatelo: ché colui che non porta onore alle dame, perde il proprio. Ma, soprattutto, rimanete casto e guardatevi dalla lussuria: se una pulzella vi dona l’anello che porta al dito o la scarsella della sua cintura, accettateli in ringraziamento; e, se ella non vi rifiuta un bacio, potrete prenderlo; ma quanto al resto, ve lo proibisco. Bel figliolo, frequentate i valent’uomini e ricercateli ovunque si trovino; ma prima di tutto pensate a Colui che morì in croce, e non mancate d’entrare per pregare in tutte le chiese o abbazie che incontrerete, ché sono le case di Nostro Signore».
Perceval promise; poi sellò il cavallino da caccia e prese i tre giavellotti; ma la madre gliene fece lasciare due, perché non avesse troppo l’aria d’un Gallese, e gli disse di portare nella mano destra una frusta. Fatto questo, egli prese congedo dalla madre e montò in sella. Ahimè! quando si fu allontanato il tiro d’una pietra, si voltò e vide ch’ella giaceva a terra, svenuta dal dolore. Pure, sferzò la cavalcatura e se ne andò a grande velocità per l’alta foresta.
- Il racconto può essere diviso in tre parti: individuale e inventa un titoloper ognuna di esse che ne esprima il significato essenziale.
- Dopo aver riletto la prima parte del racconto, ripercorri le principali azioni che la madre compie, completando le seguenti frasi:La madre supplica il marito di…La madre promette a sé stessa di…La madre parte per…La madre avverte Perceval di…
- Scegli almeno tre aggettivi per descrivere le caratteristiche del luogo in cui la madre decide di fermarsi. Per quale motivo sceglie un luogo simile?
- Ora concentra la tua attenzione sulla parte centrale del racconto.Con quali sentimenti Perceval osserva i cavalieri?Sottolinea nel testo le espressioni che te lo fanno comprendere.
- Perché Perceval, dopo aver incontrato i cavalieri, è tutto sognante?Cosa è cambiato dall’inizio? Perché?
- Infine, rileggi la parte conclusiva. Con quale sentimenti la madre accoglie e poi saluta il figlio? In particolare fai attenzione ad alcune espressioni:«Ecco dunque ch’è avvenuto quanto temevo di più!»Cosa è avvenuto? Perché la madre temeva tanto che accadesse?«Bel figliolo, poiché lo desiderate tanto, devo dunque lasciarvi partire!»Da quali segni la madre capisce che il destino di Perceval è di partire?
- Sottolinea i consigli che la madre dà a Perceval prima della sua partenza.
- Conclusa la lettura del racconto, scegli almeno tre aggettivi per descrivere le principali caratteristiche di Perceval e giustifica la tua scelta facendo riferimento agli episodi del racconto, come nell’esempio:
Perceval è …, infatti…
- Conclusa la lettura del racconto, scegli almeno tre aggettivi per descrivere le principali caratteristiche della madre e giustifica la tua scelta facendo riferimento agli episodi del racconto, come nell’esempio:
La madre è …, infatti…
- Dopo aver letto e lavorato sul testo, assegna un titolo a questo racconto per esprimerne il significato essenziale; scrivi quindi un riassunto di circa 30 righe che metta in luce quanto espresso nel titolo da te scelto.
- Leggi la poesia riportata di seguito e spiega in che modo essa ci fa capire ancora meglio la vicenda di Perceval.
Per la dolcezza della nuova stagione
i boschi mettono le foglie e gli uccelli
cantano, ciascuno nella sua lingua,
secondo la melodia del nuovo canto:
dunque è bene che ognuno si volga
a ciò che più desidera.
Guglielmo IX